LUCIANO DI SAMOSATA
DELLE STORIE VERE
Libri III e IV
Un viaggio oltre il tempo.
LIBRO III
Avviene, a volte, nella vecchiezza di rammentarsi, con una punta di rimorso, di ciò che non s’è voluto o saputo ultimare nel tempo della propria vita. Ed è il caso che qui mi occorre mentre mi accingo a riprendere la narrazione delle imprese mie e dei miei compagni sopravvissuti al naufragio su quella terra oltre l’oceano li dove aveva io sospesa la descrizione dei nostri incredibili casi. Non è facile a dirsi perché io qui mi dispongo a farlo. Forse nell’approssimarsi del tempo fatale bisognerebbe piegare l’animo proprio e l’altrui alla rassegnata accettazione del vero e non certo riprendere a baloccarsi con bubbole e fanfaluche intorno a fatti che non si sono mai svolti o vissuti. Ma una mente che, con vigore, ha sempre perseguito in dettaglio il volo della menzogna, come giuoco posto a svelare le ipocrisie di quella che tutti chiamano verità, può ritrovarsi, nella maturità, simile a quella dei fanciulli che a guisa di narrare e rinarrare fantasticherie finisce per dar loro sapore e colore di vero. Così è per me, ora, mentre mi trovo in terra d’Egitto ed ho appena compiuta la rilettura dei Libri I e II di quest’opera. M’è compagno nell’impresa un calice del buon vino di Chio ch’io bevvi la notte scorsa poco innanzi un sano sonno ristoratore. La notte scorsa, difatti, sognai di me e del mio falso viaggio con i miei falsi compagni e m’appariva tutto chiaro e vivido quasi come mi fossi fatto iniziato dei riti di Orfeo. Giunto che fui, nel sogno, al punto in cui fermava la mia prima narrazione, mi vedo apparire una figura munita di due folti e bianchi mustacchi, con occhi cerulei accesi come dalla luce di un infante . E’ vestito, l’uomo con uno strambo panno nero ritagliato all’altezza del petto con un’ampia insenatura che lascia intravedere un panno di fattura più lieve, candido, e all’attaccatura del collo un nastro annodato a simigliare una farfalla.
-Sei tu un dio?- Gli domando e lui sbotta in un gran riso vivido e sincero come quello che prende gli adulti dinanzi agli spropositi che, nell’innocenza, dicono i fanciulli.
-Un dio proprio no! Sai bene tu, Luciano, che gli dei son massa ed energia cui gli uomini si affannano a dar nome. Diciamo, di contro, che sono uno che ha indagato talvolta le leggi che regolano questi misteri e molte fiate combattei nella mia epoca contro i ciarlatani, come tu hai già fatto nella tua. Son giunto presso di te questa notte grazie ad una strana congiunzione delle sfere del tempo e, posto qui a vagare nella tua mente, vi ho letto il proposito di riprendere la narrazione delle Storie Vere ed ora con il potere che hanno i sogni di mescolare il falso col vero, intendo aprirti la porta del tempo e farti vedere ciò che ti avviene nelle terre oltre oceano in un era che è anche più innanzi della mia.
-A che tutto questo?- Gli domando ed incalzo: E poi chi tu sei realmente?-
-Chi io sono poco importa se non per dirti che più e più fiate mi son posto a dimostrare che nulla v’è d’assoluto e che ciò che noi si chiama verità è spesso inganno dei sensi…Ho sempre ammirato come la tua invenzione abbia irriso e dilatato quel che si suole appellare certezza Ed ora che il caso di questa inattesa congiunzione mi permette di farti compiere un tal viaggio non voglio perdere l’occasione di regalare agli uomini che verranno la forza burlante della tua penna. L’Ippocentauro della tua scrittura saprà mordere le smanie ridicolose dei nuovi imperi che si daranno le genti del tempo in cui ti mando…Potrai dar forma, così, Luciano, ai catastrofici ed esilaranti orrori che nuove improponibili verità assolute procacceranno… Buon viaggio, Luciano…Buon viaggio!-
Si’ detto scompare e la nebbia dell’iniziato m’avvolge ed io mi trovo con i miei compagni sulle spiagge di quelle terre dove li aveva lasciati sul finire del libro II…
Ridire,ora, con doviziosa attenzione, ciò ch’io vidi in quel sogno di verità m’è dura fatica e son costretto, come vi diceva, ad affidarmi al ristoro del vino di Chio. Ispero io che non vogliate imputare alla deliziosa bevanda le stranezze ch’io vissi e di cui ora narro…
Disperati e in affanno io e i miei compagni raccattammo le membra disfatte sulla spiaggia del nostro ultimo naufragio. Non ci ritrovammo altro che le nostre ossa inzuppate ed il panico di un mondo ignoto da affrontare con le sparute nostre armi e muniti delle povere cose che ognuno di noi, a nuoto, avea serbate. Ci contammo. Venti sopravvissuti e, con me, ventuno. Decidemmo di non affrontare le insidie di questa terra nuova, su cui l’oceano ci aveva vomitato, se non dopo aver riacquistato forze sufficienti e, dunque, ci abbandonammo al sonno tenendoci stretti l’un l’altro, come fanciulli desiderosi di ogni pur minima protezione. I miei occhi, resi salmastri d’acqua e di sabbia, furono gli ultimi a chiudersi, non prima di essere stati rapiti dall’incredibile mutamento della volta celeste, nella cui profondità mi parve di cogliere strani bagliori di fiamma, frecce di fuoco che si perdevano distanti, come scagliate da invisibili enormi archi. Il sonno mi colse caldo nel respiro dei compagni a me più vicini. E fu un sonno d’affanno. Nel madido sudore parvemi sprofondare in vertigine…quand’ecco, quale visione sovrapposta al roteare della volta celeste, sortire il volto della mia guida ipnotica, di quel messaggero d’inganno che m’avea trasportato chi sa dove, chi sa quando…
-Non perderti d’animo, Luciano di Samsat- Mi riprende con sarcasmo, l’uomo del tempo a venire- La vertigine in cui tu ed i tuoi compagni siete or ora collocati è dovuta all’accelerazione del tempo e dello spazio…molte velocità di luce trasportano la vostra massa, che s’è fatta energia, in un tempo accanto, un tempo distorto…il tuo occhio non può che percepire bagliori, fiamme…ma non sono altro che i mondi che si curvano nel mentre che tu li attraversi.-
Ciò detto svanì nel buio che intorno mi si fece e nel quale m’avvolsi grato del suo avvento.
Il carro del Sole avvampava le sue prime fiamme ad oriente quando i miei compagni ed io fummo destati da quel sonno di vertigine grazie ad un frastuono che poteva simigliare anche ad un canto; era come il battere di migliaia di lingue in suoni gutturali e ritmici. Il panico ci prese feroce su quella piaggia sconosciuta. Proveniva, il suono, da un qualche luogo oltre il fitto fogliame che delimitava la costa. Misurammo in non più di uno stadio la distanza tra noi e gli esseri che lo emettevano; ciò non di meno valutammo opportuno avventurarci in quella direzione tenendo ben strette le nostre misere armi. Mi posi in testa al gruppo per dare còre ai miei compagni procedendo verso il fitto fogliame e facendomi strada abbattendo rami e cespugli di foggia sconosciuta quanto intricata.
Non avevamo percorso che cento piedi nella direzione del canto che fui costretto a sollevare il braccio e fermare il mio gruppo di smarriti. Si stendeva dinanzi a noi una vasta radura disseminata da una lunga teoria di costruzioni lucenti e basse poste in schiera come a disegnare un accampamento; al centro , a migliaia, o centinaia di migliaia, figure umane inginocchiate, o avrei detto prone, sollevavano e inchinavano le braccia e il tronco tutte rivolte verso oriente emettendo il suono che dinanzi ho descritto. Ma più che d’ogni altra stranezza rimanemmo colpiti dal colore e dalla foggia degli indumenti che aveano indosso quegli strani officianti: si trattava di tuniche colore arancio lunghe sino alla vita, mentre dalla vita in giù, le gambe e il bacino erano ricoperti da una stoffa, sempre di color arancio, che si spartiva al di sotto del ventre ad avvolgere separatamente le cosce. Notammo pure che gli Aranciuomini, così sapemmo poi andavano appellati, erano tutti, maschi e femmine, privi di capigliatura col capo lucente e levigato. Finito ch’ebbe il canto, quella moltitudine prese a incresparsi come un mare sferzato da zefiro furente. Gli aranciuomini si sollevarono dalla posizione devota movendosi per direzioni sparse, composti, cheti, in un eccessivo improvviso silenzio che ci lasciò scoperti agli occhi accorti di alcuni di loro.
Un gruppo di dieci, poi venti, poi trenta aranciuomini si mosse in guisa di serpente verso lo spaurito mucchietto d’uomini ch’io governava. Feci animo ai miei, non perché li pensassi codardi, ma li sapea stanchi, smarriti. Ma quel animale color del sole s’ingrossava via via che saliva l’erta che portava a noi. Deliberai di guidare i miei uomini superstiti verso la testa della moltitudine che ora s’era fatta vociante.
“Allah aqbaar!” Tuonò oscuro colui che guidava il serpente d’arancio. Non so dire se grazie ad Hermes, dio di noi erranti, ma mi fu naturale dar fiato con la mia voce piena a quel suono duro, estatico e, ad un mio cenno, con me i miei compagni, sollevando le braccia siccome aveva fatto l’aranciuomo, ripeterono “Allah aqbaar!”
A quello il serpente divise a mezzo il suo corpo lasciando libero un sentiero per il quale prese a muoversi quello ch’io seppi poi chiamarsi il mullah Muhammad , questi fece cenno col capo levigato di seguirlo, increspando il viso in un sorriso che sapeva d’accoglienza.
Abbisogna ch’io renda palese come avvenne che gli aranciuomini e noi greci ci intendessimo, giungendo all’incredibile scoperta d’una comune regione di nascita, la mia Samsat in Syria. Un po’ pescando nella esperienza di retore ed un po’ riandando alle memorie di fanciullo,quando con il fratello di mia madre si andava alla ricerca di argille nei monti intorno Samsat, mi sgorgarono sulle labbra antiche parole d’oriente che,nel pronunciarle resero più amichevoli e fraterni i modi del mullah Muhammad. Convenimmo dunque d’adoprare una lingua elementare e laddove non giungeva la parola ci aiutammo con mappe e disegni.
Dopo, difatti, ch’ebbimo a dirgli dell’approdo sulla piaggia deserta e del vorticare dei cieli che ci avea condotto alle loro terre, il mullah diede inizio così al suo racconto.
E quel che segue è il racconto che ci fece il mullah Muhammad, a noi seduti in cerchio su ampi e morbidi cuscini color del sole, quel arancio divenuto caro al mullah e ai suoi per “memoria di vergogna ed orgoglio di riscatto”, com’ebbe a dirci con occhi lucenti:
“Luciano di Samsat”- esordì- “fratello d’oriente, l’isola nella quale approdaste, un tempo era nomata Kubah ed era abitata da indigeni, i kubahiani, che vi avevano costruito una loro repubblica. Per quanto ne possiamo avere conoscenza, vivevano in pace, ma, di tanto in tanto, subivano l’invasione di un popolo confinante, i floridiani, i quali, al termine di uno dei tanti conflitti, stabilirono sull’isola un accampamento prendendo possesso, con una loro guarnigione, della terra dove noi Aranciuomini oggi risediamo e vollero nomarla Agguantaniamo; ma i Floridiani aveano alle spalle un popolo ancora più potente e superbo: I Torruomini, detti così perché costruttori di torri che innalzavano al cielo per sfidare Allah e tutti i popoli della terra. Avvenne ora”-proseguì Muhammad con il cantilenare di un antico aedo-“che i Torruomini, ormai ebbri della loro potenza, decisero di innalzare al cielo due torri alte tanti stadi quanto le rendessero visibili ai popoli abitanti dell’altre sponde, due torri che nelle notti apparivano nere e lucenti come le corna di un demone. Inviò dapprima Allah, nella città dei torruomini, la grande scimmia; e la bestia divina portò distruzione e morte”-Su queste parole il mullah fece un lieve cenno e la gran sala dove si teneva il nostro consiglio si fece buia finché non fu d’improvviso l’oscurità trafitta da un raggio di luce. Un gran frastuono accompagnò l’apparire improvviso sul fondo della sala di oscillanti ombre viventi, prive di corpo carnale quanto vivide e presenti. Si vedeano le due torri nere con sullo sfondo una luna di bagliore sfavillante…Il nostro cuore avea già empito di battito le nostre gole quando, quasi a non poter più resistere allo spasimo del terrore, ci apparve, immensa, la scimmia. Oscillammo all’indietro, come spinti dal vento del suo urlo. Ky Ong, tale era il nome dell’essere mostruoso, com’ebbe a sottolinearci Muhammad. Lunghe scie di fuoco solcarono le ombre vivide che s’agitavano sul fondo della gran sala del nostro convivio, lunghe scie di fiamma che andarono più e più fiate a conficcarsi nel petto della gran bestia.
Gli Aranciuomini tutti presero a melodiare oscillando con i busti protesi a braccia aperte quali ombre d’uccelli sparvieri nella notte. Muhammad, in piedi ne governava il ritmo, mentre, quale rombo di tuono, un’altra bestia spaventosa prese il posto dell’enorme scimmia: con ali lucenti nel riverbero solare ed un ventre da pachiderma la bestia si infranse fragorosa sull’impalco d’una delle torri e dopo d’ella ecco apparirne un’altra gemella che con egual fragore fece disastro sull’altra torre. Stupefacemmo noi tutti, i miei compagni ed io, nel veder quelle vivide ombre balenarci dinanzi, quali fantasmi d’orrore mentre una gran polve s’innalzò nel buio della sala si’ vera che tememmo di soffocarne con le gole riarse. Siccome erano apparse le ombre lucenti si dileguarono e con esse la densa polve che parea avvolgerci qual nebbia di luce…………..
E qui, lettore futuro (se mai di questa incerta ed insicura fonte potrà mai berne alcuno) con mio orrore scopro che il manoscritto presenta improvvide lacune dovute forse ad una inesperta o improvvisata conservazione o, forse, pur’anche, alla salsedine di procellosi trasferimenti marini. Lo segnalo duro al frate che di su le mie spalle m’incombe colmo d’ansia:
-Frate, qual disastro è mai questo? L’intero resto del libro III parmi perduto, se questo com’io spero e ormai mi credo è opera di mano lucianea, l’hai tu serbata quale carta per nettarsi metaboliche feci!
-Troppo duro Luigi m’apostrofate- Mi fa il frate di risentito cipiglio- Non potea io tenerlo in sede asciutta ed in garbato involucro ché qua io giunsi compagno di un legato papale su di una nave colma di porpore cardinalizie; era difatti esso ascoso tra i miei poveri stracci di frate nella sacca delle mie robbe esposto ai venti e alle disavventure del viaggio. Comunque, Luigi, non tutto l’intero libro è perduto, qua e là v’è traccia di un permanere della scrittura, provatevi a ricostruirne il senso.
– Provatevi un corno! Frate che già in questa notte ventosa e tonante non v’è modo al luccichio di una breve candela di ricostruirne l’intero, figuriamoci i frammenti: non vorrete mica ch’io da pazzo mi riscriva per invenzione i libri di Luciano?
Poi che ebbi così, con una certa qual durezza, redarguito quel matto di frate mi calo, tuttavia, nell’improba impresa e mi provo, qui, mio postero lettore (se mai, com’ebbi a dire, vi sarà ventura che alcuno mi legga) a ricucire, rammendare, fornire un sia pur pallido senso ai galleggianti frammenti di un manoscritto ch’ io già stentava a credere reale e che ora, per incuria o vendetta del tempo volatile della parola, mi si poneva dinanzi quasi ombra confusa, schizzo visivo, macchia di sogno. Vaneggio e il vaneggiar è parto di panico e furore per essermi io imbarcato in si’ folle impresa nella mia ultima notte irlandese. Ma, precipitato che sono in siffatta evenienza, non mi resta che munirmi di spudorato coraggio e improvvida intuizione e provarmi a trascrivere, in guisa di riassunto, le tracce che, a occhio nudo e a baglior di fiammelle, mi riesce di intravvedere…
LIBRO III- frammenti
Una sinossi
L’isola dove approdano Luciano e i suoi è divisa in due distretti:
-uno abitato dagli aranciuomini (orangemen) con capitale Neakandahara
-L’altro dai discendenti dei loro carcerieri detti torruomini (towermen)
Con capitale Havanattan
Le civiltà dei territori di provenienza sono implose e desertificate e dopo questo evento, lento ma inesorabile, una sorta di tensione antropologica ha fatto si’ che Cuba venisse considerata nella sua natura storica di terra d’approdo, di mescolanza….sempre più prigionieri, sempre più carcerieri…convivenza impossibile…fine del ruolo e della funzione di prigione con il crollo delle civiltà di provenienza: l’ovest dei towersmen, l’est degli orangemen…
Il vecchio sogno dei towersmen era di insediarsi nella zona di Havanattan (L’avana) e costruirvi l’antico habitat perduto che aveva dato origine alla guerra…
I torruomini
Abiti di foggia scura e valigetta (trovare espressione lucianea per definirla)
Vi sono state , nell’isola, delle guerre causate dalla volontà dei Torruomini di innalzare le loro torri fino a renderle visibili oltre i confini dei territori degli Aranciuomini…
Una sorta di riproposizione simbolica dell’antica volontà di dominio mal sopportata dagli aranciuomini che, esperti in metodi da guerriglia, erano riusciti ad infiltrarsi nel territorio dei Torruomini e ad abbattere per ben due volte le torri simbolo dell’antico potere…
All’abbattimento era seguita per rappresaglia l’invasione di Neakandahara e la deportazione degli aranciuomini responsabili in campi di lavoro destinati alla costruzione di nuove torri…
Al momento dell’approdo di Luciano le spie riferiscono che i torruomini hanno ripreso ad innalzare le torri di Havanattan oltre il limite stabilito ed una nuova guerra si affaccia all’orizzonte….
Luciano e i suoi, infatti, hanno sorpreso la comunità degli Aranciuomini mntre prega rivolta ad est il suo dio di dargli forza di sooportazione ed energia ed astuzia per abbattere ancora una volta la superbia dei torruomini….
La cesura tra il libro III e il libro IV è contrassegnata da brevi appunti sul quadernetto di Settembrini e trova il suo punto di snodo nel momento in cui a Luciano e ai suoi i ieuviene affidato dagli Aranciuomini il compito di introdursi nel territorio dei torruomini quali spie…