Un mio post di ieri (Il canto dell’infanzia) ha generato una strana corsa a dichiararsi , più o meno assidui ascoltatori dello Zecchino d’oro nell’età infantile, pur avendo io chiarito che il Gesang di Stockausen nulla aveva a che vedere con la mia prima infanzia, ma, come dire, era stato da me postato (come ha intuito luxOr) come doloroso sottofondo di voci infantili ormai estinte. Un commento di Erospea mi ha aiutato tanto in questa direzione, ricollocando l’opera di Stockausen nell’ambito di quel che è: un canto doloroso sull’infanzia macellata ,allora tra lager e forni, oggi sul fondo del nostro Mediterraneo. Ma al di là di tutto ciò avevo, erroneamente dato per scontato che la musica contemporanea avesse ormai consolidato partito nel nostro tempo. Mi sbagliavo. Un errore di supponenza. Ma non mi pento tuttavia; dal momento che numerosi bloggher hanno poi voluto discuterne con me per approfondire. Non avevo (e non ho) certo intenzioni pedagogiche da far vivere in questa rete, ma solo, come sempre ribadisco umilmente, quote di un sapere inquieto ch’io stesso metto sempre in discussione e questo vorrei fortemente s’avvertisse in chi interviene nel mio blog. Non sono portatore di alcuna sacra verità, ma quando espongo nuda la mia anima vorrei rispetto questo si. Già infingiamo mascheramenti d’ogni tipo tra i nostri blog ma se capita ( e può capitare) una tenera corrispondenza diamole campo con gioia e libertà…In quanto a Stockausen aggiungo solo : non lasciamo il canto dei forni esclusivamente al bellissimo pezzo dell’Equipe84 “Auschwitz” (son morto ch’ero bambino/son morto con altri cento/ passato per un camino/ ed ora sono nel vento)…ma abbandoniamoci anche all’asprezza elettronica del Gesang der Junghelinghe…ascoltiamoli quei fantasmi che liquidi galleggiano tra onde di flussi sonori…la musica non è solo melodia e compostezza armonica…accogliamo inquiete le sonorità aspre del nostro tempo…grazie a chi mi legge. Grazie a tutti voi, cari amici di rete
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Scrivo e mi balocco…
La scrittura è un meraviglioso balocco. In penna d’oca o in battito di tastiera, danzano parole che sono come tessere d’un antico gioco. Quando scrivo gioco e mi si allenta ogni antico peso…Se pure ho mille anni o una provenienza a me ignota quanto antica, quando scrivo nasco nuovo. Lo stupore fanciullo aggredito dal troppo sapere (vecchio vezzo di chi umilmente trattiene tante voci che gli sussurrano “ricordami”), reagisce sprizzando un esprit de jeu che è allegria pur’anche quando urla dolore. Ciò che scrivo dunque, è ghirigoro, geroglifico di un’anima lieve che si fa immemore d’ogni plumbeo gravame. Chi legge, s’allegerisca con me, se vuole.
Puntata III. “la Traduzione”
LUCIANO DI SAMOSATA
DELLE STORIE VERE
Libri III e IV
Un viaggio oltre il tempo.
LIBRO III
Avviene, a volte, nella vecchiezza di rammentarsi, con una punta di rimorso, di ciò che non s’è voluto o saputo ultimare nel tempo della propria vita. Ed è il caso che qui mi occorre mentre mi accingo a riprendere la narrazione delle imprese mie e dei miei compagni sopravvissuti al naufragio su quella terra oltre l’oceano li dove aveva io sospesa la descrizione dei nostri incredibili casi. Non è facile a dirsi perché io qui mi dispongo a farlo. Forse nell’approssimarsi del tempo fatale bisognerebbe piegare l’animo proprio e l’altrui alla rassegnata accettazione del vero e non certo riprendere a baloccarsi con bubbole e fanfaluche intorno a fatti che non si sono mai svolti o vissuti. Ma una mente che, con vigore, ha sempre perseguito in dettaglio il volo della menzogna, come giuoco posto a svelare le ipocrisie di quella che tutti chiamano verità, può ritrovarsi, nella maturità, simile a quella dei fanciulli che a guisa di narrare e rinarrare fantasticherie finisce per dar loro sapore e colore di vero. Così è per me, ora, mentre mi trovo in terra d’Egitto ed ho appena compiuta la rilettura dei Libri I e II di quest’opera. M’è compagno nell’impresa un calice del buon vino di Chio ch’io bevvi la notte scorsa poco innanzi un sano sonno ristoratore. La notte scorsa, difatti, sognai di me e del mio falso viaggio con i miei falsi compagni e m’appariva tutto chiaro e vivido quasi come mi fossi fatto iniziato dei riti di Orfeo. Giunto che fui, nel sogno, al punto in cui fermava la mia prima narrazione, mi vedo apparire una figura munita di due folti e bianchi mustacchi, con occhi cerulei accesi come dalla luce di un infante . E’ vestito, l’uomo con uno strambo panno nero ritagliato all’altezza del petto con un’ampia insenatura che lascia intravedere un panno di fattura più lieve, candido, e all’attaccatura del collo un nastro annodato a simigliare una farfalla.
-Sei tu un dio?- Gli domando e lui sbotta in un gran riso vivido e sincero come quello che prende gli adulti dinanzi agli spropositi che, nell’innocenza, dicono i fanciulli.
-Un dio proprio no! Sai bene tu, Luciano, che gli dei son massa ed energia cui gli uomini si affannano a dar nome. Diciamo, di contro, che sono uno che ha indagato talvolta le leggi che regolano questi misteri e molte fiate combattei nella mia epoca contro i ciarlatani, come tu hai già fatto nella tua. Son giunto presso di te questa notte grazie ad una strana congiunzione delle sfere del tempo e, posto qui a vagare nella tua mente, vi ho letto il proposito di riprendere la narrazione delle Storie Vere ed ora con il potere che hanno i sogni di mescolare il falso col vero, intendo aprirti la porta del tempo e farti vedere ciò che ti avviene nelle terre oltre oceano in un era che è anche più innanzi della mia.
-A che tutto questo?- Gli domando ed incalzo: E poi chi tu sei realmente?-
-Chi io sono poco importa se non per dirti che più e più fiate mi son posto a dimostrare che nulla v’è d’assoluto e che ciò che noi si chiama verità è spesso inganno dei sensi…Ho sempre ammirato come la tua invenzione abbia irriso e dilatato quel che si suole appellare certezza Ed ora che il caso di questa inattesa congiunzione mi permette di farti compiere un tal viaggio non voglio perdere l’occasione di regalare agli uomini che verranno la forza burlante della tua penna. L’Ippocentauro della tua scrittura saprà mordere le smanie ridicolose dei nuovi imperi che si daranno le genti del tempo in cui ti mando…Potrai dar forma, così, Luciano, ai catastrofici ed esilaranti orrori che nuove improponibili verità assolute procacceranno… Buon viaggio, Luciano…Buon viaggio!-
Si’ detto scompare e la nebbia dell’iniziato m’avvolge ed io mi trovo con i miei compagni sulle spiagge di quelle terre dove li aveva lasciati sul finire del libro II…
Ridire,ora, con doviziosa attenzione, ciò ch’io vidi in quel sogno di verità m’è dura fatica e son costretto, come vi diceva, ad affidarmi al ristoro del vino di Chio. Ispero io che non vogliate imputare alla deliziosa bevanda le stranezze ch’io vissi e di cui ora narro…
Disperati e in affanno io e i miei compagni raccattammo le membra disfatte sulla spiaggia del nostro ultimo naufragio. Non ci ritrovammo altro che le nostre ossa inzuppate ed il panico di un mondo ignoto da affrontare con le sparute nostre armi e muniti delle povere cose che ognuno di noi, a nuoto, avea serbate. Ci contammo. Venti sopravvissuti e, con me, ventuno. Decidemmo di non affrontare le insidie di questa terra nuova, su cui l’oceano ci aveva vomitato, se non dopo aver riacquistato forze sufficienti e, dunque, ci abbandonammo al sonno tenendoci stretti l’un l’altro, come fanciulli desiderosi di ogni pur minima protezione. I miei occhi, resi salmastri d’acqua e di sabbia, furono gli ultimi a chiudersi, non prima di essere stati rapiti dall’incredibile mutamento della volta celeste, nella cui profondità mi parve di cogliere strani bagliori di fiamma, frecce di fuoco che si perdevano distanti, come scagliate da invisibili enormi archi. Il sonno mi colse caldo nel respiro dei compagni a me più vicini. E fu un sonno d’affanno. Nel madido sudore parvemi sprofondare in vertigine…quand’ecco, quale visione sovrapposta al roteare della volta celeste, sortire il volto della mia guida ipnotica, di quel messaggero d’inganno che m’avea trasportato chi sa dove, chi sa quando…
-Non perderti d’animo, Luciano di Samsat- Mi riprende con sarcasmo, l’uomo del tempo a venire- La vertigine in cui tu ed i tuoi compagni siete or ora collocati è dovuta all’accelerazione del tempo e dello spazio…molte velocità di luce trasportano la vostra massa, che s’è fatta energia, in un tempo accanto, un tempo distorto…il tuo occhio non può che percepire bagliori, fiamme…ma non sono altro che i mondi che si curvano nel mentre che tu li attraversi.-
Ciò detto svanì nel buio che intorno mi si fece e nel quale m’avvolsi grato del suo avvento.
Il carro del Sole avvampava le sue prime fiamme ad oriente quando i miei compagni ed io fummo destati da quel sonno di vertigine grazie ad un frastuono che poteva simigliare anche ad un canto; era come il battere di migliaia di lingue in suoni gutturali e ritmici. Il panico ci prese feroce su quella piaggia sconosciuta. Proveniva, il suono, da un qualche luogo oltre il fitto fogliame che delimitava la costa. Misurammo in non più di uno stadio la distanza tra noi e gli esseri che lo emettevano; ciò non di meno valutammo opportuno avventurarci in quella direzione tenendo ben strette le nostre misere armi. Mi posi in testa al gruppo per dare còre ai miei compagni procedendo verso il fitto fogliame e facendomi strada abbattendo rami e cespugli di foggia sconosciuta quanto intricata.
Non avevamo percorso che cento piedi nella direzione del canto che fui costretto a sollevare il braccio e fermare il mio gruppo di smarriti. Si stendeva dinanzi a noi una vasta radura disseminata da una lunga teoria di costruzioni lucenti e basse poste in schiera come a disegnare un accampamento; al centro , a migliaia, o centinaia di migliaia, figure umane inginocchiate, o avrei detto prone, sollevavano e inchinavano le braccia e il tronco tutte rivolte verso oriente emettendo il suono che dinanzi ho descritto. Ma più che d’ogni altra stranezza rimanemmo colpiti dal colore e dalla foggia degli indumenti che aveano indosso quegli strani officianti: si trattava di tuniche colore arancio lunghe sino alla vita, mentre dalla vita in giù, le gambe e il bacino erano ricoperti da una stoffa, sempre di color arancio, che si spartiva al di sotto del ventre ad avvolgere separatamente le cosce. Notammo pure che gli Aranciuomini, così sapemmo poi andavano appellati, erano tutti, maschi e femmine, privi di capigliatura col capo lucente e levigato. Finito ch’ebbe il canto, quella moltitudine prese a incresparsi come un mare sferzato da zefiro furente. Gli aranciuomini si sollevarono dalla posizione devota movendosi per direzioni sparse, composti, cheti, in un eccessivo improvviso silenzio che ci lasciò scoperti agli occhi accorti di alcuni di loro.
Un gruppo di dieci, poi venti, poi trenta aranciuomini si mosse in guisa di serpente verso lo spaurito mucchietto d’uomini ch’io governava. Feci animo ai miei, non perché li pensassi codardi, ma li sapea stanchi, smarriti. Ma quel animale color del sole s’ingrossava via via che saliva l’erta che portava a noi. Deliberai di guidare i miei uomini superstiti verso la testa della moltitudine che ora s’era fatta vociante.
“Allah aqbaar!” Tuonò oscuro colui che guidava il serpente d’arancio. Non so dire se grazie ad Hermes, dio di noi erranti, ma mi fu naturale dar fiato con la mia voce piena a quel suono duro, estatico e, ad un mio cenno, con me i miei compagni, sollevando le braccia siccome aveva fatto l’aranciuomo, ripeterono “Allah aqbaar!”
A quello il serpente divise a mezzo il suo corpo lasciando libero un sentiero per il quale prese a muoversi quello ch’io seppi poi chiamarsi il mullah Muhammad , questi fece cenno col capo levigato di seguirlo, increspando il viso in un sorriso che sapeva d’accoglienza.
Abbisogna ch’io renda palese come avvenne che gli aranciuomini e noi greci ci intendessimo, giungendo all’incredibile scoperta d’una comune regione di nascita, la mia Samsat in Syria. Un po’ pescando nella esperienza di retore ed un po’ riandando alle memorie di fanciullo,quando con il fratello di mia madre si andava alla ricerca di argille nei monti intorno Samsat, mi sgorgarono sulle labbra antiche parole d’oriente che,nel pronunciarle resero più amichevoli e fraterni i modi del mullah Muhammad. Convenimmo dunque d’adoprare una lingua elementare e laddove non giungeva la parola ci aiutammo con mappe e disegni.
Dopo, difatti, ch’ebbimo a dirgli dell’approdo sulla piaggia deserta e del vorticare dei cieli che ci avea condotto alle loro terre, il mullah diede inizio così al suo racconto.
E quel che segue è il racconto che ci fece il mullah Muhammad, a noi seduti in cerchio su ampi e morbidi cuscini color del sole, quel arancio divenuto caro al mullah e ai suoi per “memoria di vergogna ed orgoglio di riscatto”, com’ebbe a dirci con occhi lucenti:
“Luciano di Samsat”- esordì- “fratello d’oriente, l’isola nella quale approdaste, un tempo era nomata Kubah ed era abitata da indigeni, i kubahiani, che vi avevano costruito una loro repubblica. Per quanto ne possiamo avere conoscenza, vivevano in pace, ma, di tanto in tanto, subivano l’invasione di un popolo confinante, i floridiani, i quali, al termine di uno dei tanti conflitti, stabilirono sull’isola un accampamento prendendo possesso, con una loro guarnigione, della terra dove noi Aranciuomini oggi risediamo e vollero nomarla Agguantaniamo; ma i Floridiani aveano alle spalle un popolo ancora più potente e superbo: I Torruomini, detti così perché costruttori di torri che innalzavano al cielo per sfidare Allah e tutti i popoli della terra. Avvenne ora”-proseguì Muhammad con il cantilenare di un antico aedo-“che i Torruomini, ormai ebbri della loro potenza, decisero di innalzare al cielo due torri alte tanti stadi quanto le rendessero visibili ai popoli abitanti dell’altre sponde, due torri che nelle notti apparivano nere e lucenti come le corna di un demone. Inviò dapprima Allah, nella città dei torruomini, la grande scimmia; e la bestia divina portò distruzione e morte”-Su queste parole il mullah fece un lieve cenno e la gran sala dove si teneva il nostro consiglio si fece buia finché non fu d’improvviso l’oscurità trafitta da un raggio di luce. Un gran frastuono accompagnò l’apparire improvviso sul fondo della sala di oscillanti ombre viventi, prive di corpo carnale quanto vivide e presenti. Si vedeano le due torri nere con sullo sfondo una luna di bagliore sfavillante…Il nostro cuore avea già empito di battito le nostre gole quando, quasi a non poter più resistere allo spasimo del terrore, ci apparve, immensa, la scimmia. Oscillammo all’indietro, come spinti dal vento del suo urlo. Ky Ong, tale era il nome dell’essere mostruoso, com’ebbe a sottolinearci Muhammad. Lunghe scie di fuoco solcarono le ombre vivide che s’agitavano sul fondo della gran sala del nostro convivio, lunghe scie di fiamma che andarono più e più fiate a conficcarsi nel petto della gran bestia.
Gli Aranciuomini tutti presero a melodiare oscillando con i busti protesi a braccia aperte quali ombre d’uccelli sparvieri nella notte. Muhammad, in piedi ne governava il ritmo, mentre, quale rombo di tuono, un’altra bestia spaventosa prese il posto dell’enorme scimmia: con ali lucenti nel riverbero solare ed un ventre da pachiderma la bestia si infranse fragorosa sull’impalco d’una delle torri e dopo d’ella ecco apparirne un’altra gemella che con egual fragore fece disastro sull’altra torre. Stupefacemmo noi tutti, i miei compagni ed io, nel veder quelle vivide ombre balenarci dinanzi, quali fantasmi d’orrore mentre una gran polve s’innalzò nel buio della sala si’ vera che tememmo di soffocarne con le gole riarse. Siccome erano apparse le ombre lucenti si dileguarono e con esse la densa polve che parea avvolgerci qual nebbia di luce…………..
E qui, lettore futuro (se mai di questa incerta ed insicura fonte potrà mai berne alcuno) con mio orrore scopro che il manoscritto presenta improvvide lacune dovute forse ad una inesperta o improvvisata conservazione o, forse, pur’anche, alla salsedine di procellosi trasferimenti marini. Lo segnalo duro al frate che di su le mie spalle m’incombe colmo d’ansia:
-Frate, qual disastro è mai questo? L’intero resto del libro III parmi perduto, se questo com’io spero e ormai mi credo è opera di mano lucianea, l’hai tu serbata quale carta per nettarsi metaboliche feci!
-Troppo duro Luigi m’apostrofate- Mi fa il frate di risentito cipiglio- Non potea io tenerlo in sede asciutta ed in garbato involucro ché qua io giunsi compagno di un legato papale su di una nave colma di porpore cardinalizie; era difatti esso ascoso tra i miei poveri stracci di frate nella sacca delle mie robbe esposto ai venti e alle disavventure del viaggio. Comunque, Luigi, non tutto l’intero libro è perduto, qua e là v’è traccia di un permanere della scrittura, provatevi a ricostruirne il senso.
– Provatevi un corno! Frate che già in questa notte ventosa e tonante non v’è modo al luccichio di una breve candela di ricostruirne l’intero, figuriamoci i frammenti: non vorrete mica ch’io da pazzo mi riscriva per invenzione i libri di Luciano?
Poi che ebbi così, con una certa qual durezza, redarguito quel matto di frate mi calo, tuttavia, nell’improba impresa e mi provo, qui, mio postero lettore (se mai, com’ebbi a dire, vi sarà ventura che alcuno mi legga) a ricucire, rammendare, fornire un sia pur pallido senso ai galleggianti frammenti di un manoscritto ch’ io già stentava a credere reale e che ora, per incuria o vendetta del tempo volatile della parola, mi si poneva dinanzi quasi ombra confusa, schizzo visivo, macchia di sogno. Vaneggio e il vaneggiar è parto di panico e furore per essermi io imbarcato in si’ folle impresa nella mia ultima notte irlandese. Ma, precipitato che sono in siffatta evenienza, non mi resta che munirmi di spudorato coraggio e improvvida intuizione e provarmi a trascrivere, in guisa di riassunto, le tracce che, a occhio nudo e a baglior di fiammelle, mi riesce di intravvedere…
LIBRO III- frammenti
Una sinossi
L’isola dove approdano Luciano e i suoi è divisa in due distretti:
-uno abitato dagli aranciuomini (orangemen) con capitale Neakandahara
-L’altro dai discendenti dei loro carcerieri detti torruomini (towermen)
Con capitale Havanattan1
Le civiltà dei territori di provenienza sono implose e desertificate2 e dopo questo evento, lento ma inesorabile, una sorta di tensione antropologica ha fatto si’ che Cuba venisse considerata nella sua natura storica di terra d’approdo, di mescolanza….sempre più prigionieri, sempre più carcerieri…convivenza impossibile…fine del ruolo e della funzione di prigione con il crollo delle civiltà di provenienza: l’ovest dei towersmen, l’est degli orangemen…
Il vecchio sogno dei towersmen era di insediarsi nella zona di Havanattan (L’avana) e costruirvi l’antico habitat perduto che aveva dato origine alla guerra…
I torruomini
Abiti di foggia scura e valigetta (trovare espressione lucianea per definirla)
Vi sono state , nell’isola, delle guerre causate dalla volontà dei Torruomini di innalzare le loro torri fino a renderle visibili oltre i confini dei territori degli Aranciuomini…
Una sorta di riproposizione simbolica dell’antica volontà di dominio mal sopportata dagli aranciuomini che, esperti in metodi da guerriglia, erano riusciti ad infiltrarsi nel territorio dei Torruomini e ad abbattere per ben due volte le torri simbolo dell’antico potere…
All’abbattimento era seguita per rappresaglia l’invasione di Neakandahara e la deportazione degli aranciuomini responsabili in campi di lavoro destinati alla costruzione di nuove torri…
Al momento dell’approdo di Luciano le spie riferiscono che i torruomini hanno ripreso ad innalzare le torri di Havanattan oltre il limite stabilito ed una nuova guerra si affaccia all’orizzonte….
Luciano e i suoi, infatti, hanno sorpreso la comunità degli Aranciuomini mntre prega rivolta ad est il suo dio di dargli forza di sooportazione ed energia ed astuzia per abbattere ancora una volta la superbia dei torruomini….
La cesura tra il libro III e il libro IV è contrassegnata da brevi appunti sul quadernetto di Settembrini e trova il suo punto di snodo nel momento in cui a Luciano e ai suoi i ieuviene affidato dagli Aranciuomini il compito di introdursi nel territorio dei torruomini quali spie…
2 Il volume che si occupa di cuba e di guantanamo è pubblicato a cura del corriere della seracom
Sberleffo al me (ma chi è?)
Ch’io mi sia
ognòr mi spia
il mio occhio sbarazzino
un po’ hidalgo
e un po’ bambino;
facitòr di verba al vento
ché la vita non pavento,
pur se mi balocco,
con lei,
a stento.
E voi lettòr
del mio contento,
ghermite al volo
le mie parole al vento…
al vento…
al vento.
Chi sono?
Qual maschera o pupazzo, qui mi aggiro pronto a scrutare gli altrui mascheramenti. Chi io mi sia non può esser detto che povera sarebbe ogni parola qui prodotta. Del resto cos’è un nick o un gravatar, se non una maschera porosa aperta alle infinite ambiguità del segno, ambiguità su cui le parole spesso segnano confini labili, indistinguibilità del sé. E’ un po’ che viaggio tra i sentieri di questo blog e ho appreso che a navigare non son io ma le frecce aspre e dolci del mio dire; così fan gli altri e mille e mille mondi noi tutti ci figuriamo. Abbiamo tutti instabilità sessuale, quasi angeli, ché la scrittura si diverte a parificare i generi annegandoli nella nebbia di mille parvenze. Potrei avere mille anni o zero, esser già nato o anima imminente. Che importa?… Un saluto angelico a tutti!
Puntata 2. “Un monaco, naturalmente”
Un monaco, naturalmente.
Il primo approdo, dopo l’atto di pirateria del figlio, è per Settembrini in Irlanda, l’irrequieta e cattolicissima Irlanda. E, a Cobh, nota, allora, come Queenstown,una notte, in una locanda, in attesa di trovare una nave per l’amata Inghilterra, il patriota-letterato riceve una strana visita…E qui, lettore ansioso, interrompo la mia incerta ricostruzione e riporto le pagine del quaderno che ho ritrovato (dirò, certo, poi, come) nelle quali Luigi Settembrini ha registrato l’incontro con il personaggio che gli ha ‘prestato’, per una notte, l’inedito seguito lucianeo de La storia vera:
I NUOVI LIBRI DI LUCIANO
(note su di un’incredibile lunga notte)
Di Luigi Settembrini
“Una pinta di guinnes e del pesce fritto mi avevano, misericordiosamente, predisposto ad un sonno ristoratore quando, nel suo inglese a forte accento gaelico, la rossa e rubiconda Susanna ‘O Grady, padrona del The Cove mi invita, dura e gioviale, ad accogliere un inatteso ospite al mio tavolo. Le chiedo sorpreso di chi mai possa trattarsi, quando lei si sposta, gentile e suadente, per far spazio ad una figura che, nel barlume oscillante delle lucerne, mi parve un inquietante presenza, figlia dell’eccessiva libagione di birra che m’ero concesso a rifugio dell’emozione per la fortunata svolta che aveva preso il mio viaggio verso la deportazione.
-Signor Luigi Settembrini?- Mi fa lui in un italiano duro quanto sguarnito di accenti. Mi riprendo, mi scuoto e metto finalmente in chiaro la figura alta e segaligna che mi sta di fronte. Un monaco.
-Si, sono Settembrini. E, voi, chi siete?- Nel dirlo sposto la lucerna che brucia nell’acre odore di olio e do luce al suo volto. Segnato da profondissime rughe si rivela un sorriso quasi amaro, doloroso, da vecchio assai stanco.
-Sono Edward ‘O Grady, fratello della padrona ed un meraviglioso caso sta intrecciando le nostre vite, questa notte.- Solo ora m’avvedo che il suo dire è agitato quanto accorato. Pur reso avveduto dai dolorosi tradimenti che la vita mi aveva fin lì riservato, mi dispongo ad ascoltare. Così, il monaco prosegue:
-Si! Un meraviglioso caso che voi abbiate scelto The Cove per la vostra ultima notte irlandese. Un portentoso caso che io, Edward ‘O Grady, sia giunto dal continente a pochi giorni dal vostro travagliato approdo su queste coste, grazie all’impresa del vostro figliolo…
– Come conoscete questi accidenti?- Mi irrito e mi appronto a ricusare ogni altra intrusione nelle mie traversie.
– Non vi dovete turbare, Signor Settembrini, noi irlandesi avversiamo i tiranni quanto e più di voi ed amiamo la libertà e la cara patria e siamo pronti al supremo sacrificio, come pure voi ne eravate pronto.
– Come siete addivenuto sì facilmente addentro alla mia storia, Signor O Grady? Io non profferii parola, qui, alla locanda.
– Ho soggiornato a lungo nella vostra amata Italia, tanto a lungo da cogliere la fama che nella vostra terra avete saputo guadagnarvi. Vi vissi dieci anni della mia esistenza e vi presi i voti da benedettino nell’abbazia di Monte Cassino nell’anno 1848, quando già, per le campagne, si vedevano passare gli eserciti al servizio dell’oppressore e si diceva della Costituzione e di un dotto che prometteva di debellare il mostro dell’ignoranza…Voi, Luigi! –
Ripresomi dallo sgomento e confortato dal naturale moto d’orgoglio, affronto, deciso il frate:
-Voi parlate da laico, fratello Edward, io ho conosciuto innumerevoli preti e frati e di rado, se non mai, li ho sorpresi ad accendersi di spirito repubblicano e libertario; m’apparite quale un religioso assai inconsueto…
Su queste mie parole lo vedo come rasserenarsi ed acquisire un inatteso vigore, una giovanezza, dispersa o raggomitolata in un cantuccio del suo animo fiero, prende corpo sul suo volto che d’un subito si fa ilare e disteso.
-Noi cattolici irlandesi diamo,obbedienti, a Roma il regno della nostra confessione, ma per la nostra terra, per il governo delle nostre genti celtiche, non riconosciamo altro sogno che la libertà repubblicana-
Ammirato da una tanto risoluta gioia civile, mi dispongo, non più difensivo,ad accogliere, amichevole e fraterno, le confidenze che il monaco freme d’offrirmi…e m’apro fiducioso:
-A che, dunque, dare del meraviglioso caso a questo nostro incontro?-
-Avete, con voi-mi dice con accento grave- il vostro amato Luciano? Dico i testi e, naturalmente, la vostra preziosa traduzione?-
Il pulsare del mio cuore si fa, in un istante, frenetico. Cerco d’istinto con gli occhi vie di fuga, guardo la distanza che mi separa dall’uscio d’ingresso e la rampa di scale che da verso le camere della locanda. Penso a mio figlio che ancora è fuori per sistemare gli affari della nostra imminente partenza e, per un attimo, mi sento perduto.
– Chi vi manda? Di chi siete al soldo?- Chiedo, pronto anche a battermi e, per dimostrarlo, picchio con impeto il pugno sul tavolo, rovesciando la preziosa birra irlandese. Lo spreco del nettare caro ai Celti e il frastuono provocato m’attirano sguardi e brusii di disapprovazione dagli sparuti avventori del The Cove.
– Sapevo che avreste reagito con apprensione a questo mio cenno alla vostra opera, ma non abbiate timore,v’ho già dato modo di intendere che non provo, certo, benevolenza per quelli che furono i vostri carcerieri.
-Eppure- incalzo – solo loro ed una assai ristretta cerchia di sodali sanno della mia fatica in carcere.-
-E questo è il punto, Luigi, perdonatemi se ormai mi concedo di chiamarvi così. Questo è il punto. Fu nell’anno del Signore 1850, un anno dopo la vostra carcerazione a Santo Stefano, che a firma di uno dei vostri sodali, appunto, tal Benedetto………,giunge al priore dell’Abbazia presso la quale io compiva il mio ufficio di frate, una missiva nella quale si chiede notizia di un manoscritto latino de I dialoghi conservato presso la Biblioteca Vaticana. Ora, Luigi, Il buon padre era a conoscenza delle mie continue frequentazioni in quella biblioteca, onde affinare i miei studi classici che aveva intrapreso fin da giovanetto qui a Dublino presso un sant’uomo ,un abate di nome Shannon, che sosteneva ch’io possedessi un gran talento per le lettere…ma vi vedo impaziente…ebbene verrò al punto-
-Ma no! Ma no!-Tento di interloquire- raccontate pure per intero la vostra istoria-
– Non abbiamo tanto tempo, Luigi, il vostro figliolo Raffaele avrà approntato di certo la nave che domani vi porterà a Londra e, dunque, ci resta solo questa notte a che io possa mostrarvi quel che ho da mostrarvi e voi possiate portare a compimento la nobile impresa che chiedo al vostro ingegno…-
Una vertigine d’agitazione e d’ansia mi prende e scruto il monaco che adesso, lo veggo assai bene, ha fatto gl’occhi da furetto. M’avvedo della mia bocca spalancata dallo sguardo compiaciuto del mio strano visitatore, lo sguardo di uno che s’attende proprio quella reazione…Non mi resta che prendere in mano il gioco, per dignità, almeno. M’ero lasciato portare a ballo per troppa pezza…
-Al dunque! Frate, il priore vi affida la missione alla Vaticana, voi la portate a compimento, l’ho avuta, infatti la copia, suppongo da voi trascritta,de il Latino de I Dialoghi , ed oggi, questa sera, m’è data l’opportunità di dirvi il mio grazie; ciò spiega a iosa le notizie che possedete sul conto del mio Luciano…e certo è questa una ben fortunata coincidenza che mi onora e che mi dà , lo ripeto, la possibilità di incontrare uno dei miei benefattori…in quanto all’impresa che mi chiedete, temo che il ritorno, a breve, del mio amato Raffaele mi costringerà a sistemare in gran fretta le mie cose e ad apprestarmi alla partenza, e pertanto, mio buon amico…
-Alla Vaticana non rinvenni solo il Latino de I Dialoghi, bensì pur anche un originale greco che un amico Gesuita, di cui non posso farvi il nome, avea preservato, sottraendola alla cura dei suoi superiori, perché s’era fatta la convinzione che l’avrebbero sottratto al mondo e alla sana curiosità degli studiosi…
– Un originale greco di chi?-
-Ma del nostro amato scrittore di Samosata, naturalmente!-
-Bubbole! Fratello Eduardo, bubbole! E poi, nel 1850 Luciano era ben noto agli studiosi e non v’era cagione alcuna di nasconderne un originale!-
-E’ che, mio buon Luigi, questo originale non appartiene alla produzione nota di Luciano, o, meglio, s’affianca alla produzione nota, ma è come se la sconvolgesse integrandola…insomma, un sogno, una visione, una profezia!-
-Ecco, lo sapeva bene io! Questo gesuita vi tirò un bello scherzo, gabbandovi, magari un Luciano cristiano-
-Vi sbagliate, Luigi, il gesuita sapeva bene che quel testo che m’affidava non avea nulla a che fare con nostro Signore…perché, è tempo che ve lo sveli, trattasi dei libri III e IV de –
-Ma Luciano non li ha mai scritti quei libri! La sospensione del racconto fa parte del suo gioco…-
-E’ quel ch’io dissi al mio amico gesuita finché non fui davanti alle pergamene laboriosamente ripiegate più fiate a formare i sedicesimi e scritte in recto e verso sul pelo e sulla carne. Potemmo metterle a confronto con alcuni rari autografi e so bene io come mi tremavano le mani e le ginocchia nel vedere corrispondenze e ripetizioni di grafia di immancabile e dura evidenza.-
-Amate Luciano fino a ripeterne le fascinose menzogne, mio buon frate, e seguiterei questo giuoco d’invenzione letteraria se non cascassi dal sonno…chi sa? Un giorno potremo rincontrarci a riprendere a fantasticare del nostro autore, dei suoi nuovi libri Delle Verità. A momenti Raffaele farà rientro e potrebbe rimproverare suo padre d’aver vegliato troppo a lungo…-
-Dovrà accettare che suo padre vegli l’intera notte perché solo questa gli è data per vedere, toccare e tradurre nel suo bel idioma il Luciano ritrovato-
-Voi siete un gran matto, frate Eduardo!-
Qui le note di Settembrini presentano un interruzione. I fogli del piccolo quaderno nero (che di un piccolo quaderno nero si tratta), recano segni di indecifrabili cancellature. Qui e lì s’intravedono talune parole e frasi sparse, come “la mia imprudenza è pari alla mia sfrenata curiosità”; o, ancora: “sull’incedere del monaco, in questa incredibile notte irlandese, io mi chieggo …” …; più avanti : “ Il pensiero di Raffaele e del suo timor panico d’avermi ancora una volta perduto”. Quel che si intende è che frate Edward dovette aver convinto il Settembrini a seguirlo in un qualche altro luogo lontano dalla locanda, forse un capanno, o una piccola abitazione in legno non lontano dal mare e ciò si evince da taluni passaggi delle pagine successive, dove il racconto riprende fluido:
–Tenete discosta la lucerna, ché la carta pergamena può subirne danno- m’intima il frate premuroso-
-So ben io quel che mi faccio, Eduardo, non è certo il primo di questi gioielli che mi viene tra le mani!-
In quel piccolo, povero ambiente dove non v’è altro che un tavolaccio di pino vecchio e una branda, veggo ora a me dinanzi l’opera di quel diavolo di un Prometeo. Per antico fiuto, che solo noi filologi abbiamo, intuisco subito che il frate non ha mentito. La carta pergamena non è falsificata ed i tracciati delle lettere greche sono assai simili,anzi identici a quelli che m’era, per fortuna e ingegno, capitato di vedere. La cura della rilegatura mi pare assai più tarda, fattura da XIII secolo, simile a certe opere d’ingegno libraio care ai maestri di Tivoli e non manco di rilevarlo all’attenzione del monaco.
-I miei fratelli benedettini, in Santa Maria Maggiore, aveano l’uso di preservare i quaterniores più antichi con la pelle conciata in grado di proteggerli dall’umido e dai repentini cambi del tempo…-
-Dunque anche voi pensate che provenga dal monastero di Tivoli?- Nel dirlo prendo, amorevole, tra le mani il prezioso libro e lo rigiro delicato, come volessi io che mi vibrasse ancora della mano del suo fabbro…
-Anch’io vorrei che mi parlasse- mi fa Eduardo con un blando sospiro- ma m’è d’uopo rammentarvi che non ci resta che questa notte per la traduzione e…
-Potrei pur ben rimandare la partenza!- interloquisco spazientito…
-Non io, Luigi, non io. Quel buon gesuita, che mi pregò di tenerlo, ora me ne chiede l’immediata restituzione, mi dice, in una missiva che proprio ieri mi giunse, a pena della sua vita! E già m’apprestava, dolorosamente, ad anticipare il mio ritorno a Roma, quando è avvenuto il miracolo del nostro incontro…
-L’ immediata restituzione, per che farne?
– L’avete bene inteso: il libro ha da sparire.
-Potevate copiarlo.
– E lasciare in giro per il mondo la prova che condannava, tradendone la fiducia, un buon amico? No! Ne pur anche il nostro amato Luciano potea spingermi a tanto…
– E dunque, allora? A ché lasciare a me questo fardello?
-Perché so che voi, Luigi, da onesto patriota e letterato mi darete solenne parola di tenere da conto il quaderno su cui, frenetico, già state scrivendo e su cui riporterete l’opera. Farete in modo che esso sia ritrovato in un tempo a venire, un tempo forse più pronto a ricevere il fuoco profetico che queste Storie Vere serbano.
-E se me lo ritrovassero indosso?
-Direte che è opera del vostro ingegno scherzoso, che avete voluto fingere un Luciano, come avete già finto un Aristide di Megara.
-Pur anche questo sapete?
-Molto cercai di voi e molti incontrai che v’avevano conosciuto e non di meno arretrai dall’interrogare taluni vostri compagni di cella.
Arrossisco di rabbia e sconcerto per il mio pudore intimo violato, e il moto incontrollato di questo sentimento si legge patente nel mio volto, nel mio sguardo.
– Non so null’ altro che di un quadernetto e di un titolo assai affascinante, I Neoplatonici mi pare…-
– Quel quadernetto è andato perduto!
– Capisco…, ma è tempo che mi diate la vostra parola, com’io v’ho or ora dimandato.
Messo sì duramente alle strette, giuro e prometto al frate quanto mi ha chiesto e m’accingo a compiere l’impresa, quando, nell’aprire il recto del tabulato I, un improvviso colpo di vento spalanca una finestrella che affaccia verso la spiaggia, lasciando penetrare in questo strano capanno il mugghio del mare. La lucerna si spenge e le antiche carte prendono a vibrare. Non foss’io un loico ed un laico convinto, lo prenderei quale un presagio, un segno d’oscura accoglienza nelle visioni nove di Luciano.
– Proteggete il manoscritto, Luigi!- Mi fa il frate mentre corre a chiudere l’importuna finestra e provvede a riaccendere la lucerna .-Perdonate il disagio per questo luogo inusuale, ma esso è l’unico refugio che ci scampi dal manifesto accorger de le genti- mi dice in una improvvida citazione petrarchesca che richiama inevitabile un mio sguardo in tralice. Mi prende, a questo punto, una sorta di timor panico, una sgradevole sensazione d’esser straniero a quel luogo, a quell’ uomo. Sono pronto ad abbandonare questa assurda contingenza nella quale mi son impegolato, quando le lettere rosso fuoco, quasi carmiglio, che segnano la titolatura del foglio uno recto, mi riconducono, d’un colpo nel vortice che m’aveva spinto sino a quel punto.
-Silenzio, ora!- Urlo quasi in farsetto- E sia!-
Traduco, traduco, traduco ed il rammarico di non aver tempo né modo di riportare almeno frammenti dell’originale, è vinto dall’incredibile materia dei nuovi libri di Luciano…
Qui, il quaderno reca un foglio pieno zeppo di tentativi di trascrizione evidentemente riferiti alle dimensioni e a una più accurata descrizione del manoscritto, ma appaiono delle cancellature così fitte da impedire di leggervi al di sotto; a tratti si intravedono parole sparse quali palinsesto, o rilegatura bizzarra, tentativi di misurazione con l’indicazione mm di subito seguita da uno scarabocchio veloce. Insomma resta evidente che fratello O’ Grady deve aver proibito ogni precisa descrizione filologica dell’oggetto. Poi dopo un intervallo d’un altro foglio bianco…
Continua… Seguici nelle terza puntata…
Puntata 1: “Delle Storie Vere”
Il Luciano ritrovato.
Delle storie vere. Cenni preliminari.
Che La Storia vera potesse avere un ‘seguito’ era assolutamente impensabile, nonostante la promessa fatta al lettore dallo stesso Luciano in chiusura del libro II, tanto più che le fonti cui la filologia lucianea fa riferimento non vi fanno cenno alcuno1. Il ritrovamento è ancor più sorprendente perché ci restituisce un’opera sostanzialmente integra, una sorta di ri-apparizione prodigiosa che pone infiniti problemi e per la collocazione nella ‘fabbrica’ degli scritti di Luciano e per il significato stesso che l’autore, accorto inventore di generi, intendeva dargli. Si tratta di una palinodia? Doveva succedere al classico che conosciamo? Ma andiamo per ordine. Io non sono un filologo, tanto meno un grecista, il mio lavoro non si esplica nell’indagine inesausta su antichi reperti testuali né conosce l’eccitazione di una traccia labile custodita in una fonte che rimanda ad altre fonti, scrittura di scritture che costruiscono il ponte ininterrotto di un continuum spazio-temporale altro. Viene alla memoria, quale esempio forte, il brillio degli occhi e la grinta infantile da duro che accompagnavano il grande Marcello Gigante quando accennava alla probabilità, assai alta, di rinvenire il manoscritto originale del De rerum natura di Lucrezio portando a termine gli scavi nella villa di Pisone ad Ercolano; avesse potuto, Gigante avrebbe provveduto con le sue mani, le sue unghie. Ora, ne siamo certi, nell’altro tempo concesso ai grandi starà chiedendo conferma della cosa a Lucrezio in persona. Ma il lettore impaziente o lo scienziato della letteratura che sta seguendo, con malcelata ansia, le piste di queste note si starà chiedendo: “Ma quando arriva al punto questo divagante intruso? Quando si decide a darci le prove della autenticità del testo e, soprattutto, quando si decide a dirci come gli è giunto tra le mani?”. Buoni! Buoni! Ci siamo. Il ritrovamento. Partiamo dal ritrovamento. Intanto dovrei dirvi di Luigi Settembrini. E’ lui, come è noto, il primo vero e sistematico traduttore moderno di Luciano e la sua opera non è solo di grande impegno, ma pure di attenzione stilistica e cura filologica, due elementi che hanno garantito al Luciano di Settembrini una vita lunghissima. Settembrini attese alla sua fatica tra il 1849 ( anno della sua carcerazione a Santo Stefano) ed il 1859, anno in cui riuscì a sfuggire ai suoi carcerieri durante un trasferimento verso le Americhe, grazie al rocambolesco dirottamento della nave ad opera del suo primogenito. E la fuga, o, meglio, il percorso e gli incontri che si intrecciano intorno alla fuga, sono lo scenario cui far riferimento per spiegare l’incredibile scoperta. Si sarà inteso che il manoscritto è nella traduzione del grande patriota; egli ne è venuto in possesso (provvisorio, come vedremo) dopo il decennio di carcerazione e comunque, di sicuro, durante la sua breve permanenza in Irlanda. Perché non l’ha poi inserito nel corpus della sua edizione lucianea del 1861? Questione non irrilevante e forse legata alla natura del manoscritto. Ma andiamo per ordine. Come è finito tra le mani di Settembrini e, soprattutto, come è giunto a noi e perché dopo tanto tempo?
[Continua nel prossimo articolo… Seguici!…
Note alla prima puntata:
1Cfr N. De Tombis, La Storia vera “inconclusa”. Una scelta retorica? In “Philological book of ancient Greek” n.323, anno XXII, Chattanooga, 1890, pp. 1012-1025. Sul tema De Tombis argomenta: “Non escludo che Luciano accennando, nell’ultimo frammento del Libro II, ad un approdo in una terra oltre oceano, facesse sfoggio di una discreta conoscenza del globo terracqueo. Ma, intanto, intorno al Nuovo Mondo, nulla poteva lasciargli intendere che questi fosse abitato o che quelle terre potessero ospitare genti su cui lui potesse esercitare il suo spirito dissacratore. Dovette sembrargli più adatto lasciare alla deriva i suoi naufraghi, ebbri di avventure impossibili, come sospesi nel tempo incerto delle sue meravigliose fandonie”, ivi, p. 1015. In un certo senso d’altro avviso appaiono le riflessioni di M. Melacanto, il quale perentoriamente afferma: “Luciano abbandonò l’opera perché ormai sazio d’aver espresso tutto l’armamentario menzognero di cui era capace. Era inquieto il nostro Luciano di percorrere altre strade, oltre il genere sperimentato, altri stili; in somma l’autore dei Dialoghi s’era concesso con la Storia vera una breve vacanza, un esercizio ludico da abbandonare alla prima svolta narrativa possibile, come di fatto, è avvenuto”, in La Storia vera : tra vacanza intellettuale ed esercizio retorico, in “Annali dell’Accademia dei Filologi certi”, n. 1, anno I, Canicattì, 1924, pp. 3-22; la citazione è tratta da pag. 5