Ricordo che quand’ero bambino avevo con il buio un rapporto di odio-amore, di attrazione e ripulsa; era, il rinchiudermi nella mia stanza abbastanza grande (mio fratello dormiva nell’angolo opposto al mio), un momento di vigile fascinazione, di attesa febbrile. Cominciava, di fatto, il mio gioco con le ombre. Dico subito che non vedevo fantasmi, né ne evocavo l’apparizione, aprivo, piuttosto, una partita percettiva tra me e il buio: una sfida. Come procedevo? Stringevo forte forte gli occhi, quasi a farmi male sino al momento in cui cominciavano ad apparirmi come dei tunnel cromatici all’interno dei quali cominciava una sorta di viaggio vorticoso. Una volta dato inizio a questa privatissima fantasmagoria, aprivo leggermente le palpebre al buio e le macchie di colore (per lo più tra il giallo e il rosso fuoco) cominciavano a danzarmi davanti. Qui aveva inizio una seconda fase del “viaggio”: nella percezione instabile delle mie palpebre socchiuse cominciavo a “disegnare” figure all’interno della stanza e per renderle più vivide e presenti prendevo ad ammantarle di una storia. Man mano che , nel tempo, perfezionavo questo mio gioco percettivo, le figure assumevano, via via, contorni sempre più precisi, ,più definiti e cominciai a dar loro dei nomi. Quella che mi veniva meglio e che ebbe per prima l’identificazione onomastica fu la figura dell’angelo. Non che avesse le classiche alucce o gli ammennicoli di questi esserini, era, piuttosto, una macchia volto, un profilo. Devo dire che questa mia predilezione aveva un fondamento nell’unica preghiera che avevo mandato a mente nella mia educazione catechistica perché la ritenevo sufficientemente lirica per essere serbata e perché, come dire, avevo intuito subito che ne avrei potuto fare un uso privatissimo. Mi riferisco a quella preghiera che recita…Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina custodisci e governa me…insomma, per farla breve, avevo deciso che nel mio gioco percettivo sto benedetto angelo doveva starci e starci in primo piano…Intorno all’angelo spesso giravano come delle lucciole, ma più che lucciole io me le figuravo come mondi, si mondi! Piccoli universi e sistemi stellari in cui decidevo, attraverso l’angelo guida, di essere trasportato. La mia illusione infantile consisteva nell’essere convinto che a lungo andare questo gioco avrebbe fatto si’ che all’intervenire della fase dormiente vera e propria, la mia attività onirica sarebbe consistita nei viaggi che avevo progettato con l’angelo. Ahimè, se si escludono un paio di occasioni (più che altro forzate dalla mia memoria indulgente coi miei desideri) la cosa non mi veniva affatto bene e i sogni andavano per i fatti loro. Tuttavia, oggi, so che questo mio gioco, sulle soglie della percezione notturna, m’ha , confesso, sbarellato la percezione del reale spostando il mio sguardo, anche in stato di veglia, verso cromatiche rifrazioni storie e figure. E, di tanto in tanto, mi faccio una franca chiacchierata col mio angelo.
Tag: #invenzione
I bambini sanno giocare con la morte
Narra un antica leggenda che W.A. Mozart non si decideva a concludere la composizione del suo requiem e che gli angeli ultramondani, dalle cui fila proveniva, cominciarono a dargli fretta che se lo volevano riportare a casa e allora lui arronzò poche giocose note e con loro si ripartì verso i mondi di provenienza…
La leggenda, come tutte, nasconde un potente valore simbolico: la sensibilità “infantile” di Mozart (come nell’incredibile finale “giocoso” del Don Giovanni) lo spinge nella stretta finale della sua vita carnale a celebrare l’estremo e più irriverente ludus: quello con Nostra sora morte corporale…Il risultato è il più sublime viaggio di transizione che sia mai stato concepito…
Scrivo e mi balocco…
La scrittura è un meraviglioso balocco. In penna d’oca o in battito di tastiera, danzano parole che sono come tessere d’un antico gioco. Quando scrivo gioco e mi si allenta ogni antico peso…Se pure ho mille anni o una provenienza a me ignota quanto antica, quando scrivo nasco nuovo. Lo stupore fanciullo aggredito dal troppo sapere (vecchio vezzo di chi umilmente trattiene tante voci che gli sussurrano “ricordami”), reagisce sprizzando un esprit de jeu che è allegria pur’anche quando urla dolore. Ciò che scrivo dunque, è ghirigoro, geroglifico di un’anima lieve che si fa immemore d’ogni plumbeo gravame. Chi legge, s’allegerisca con me, se vuole.
Su “anime di elettroni”
Ho notato che un mio ultimo post in versi ha particolarmente, in modo positivo, agitato la rete del blog. Ne ho piacere, al di là del mio narciso qui vagante, questo significa che, in qualche modo, è arrivato a segno il mio intento, che in parte integra quanto scrivo nel mio about. Mi spiego: li, un po’ per gioco, sottolineavo come tutti noi, in questo ambiente virtuale, finiamo per indossare una maschera, iconicamente raffigurata in un’immagine o nel nik-nome (fatte le dovute eccezioni per chi si espone con nome e cognome), consapevoli di veicolare solo una parte di noi, come dire “nudità controllate”;tuttavia, nel procedere della mia navigazione e nei vari incroci che ne sono seguiti, ho potuto constatare che nelle pieghe delle mille e mille parole, s’annidano, comunque “anime nude”, corpi che danzano a volte sorpresi in momenti di debolezza o d’orgoglio, insomma persone reali. Che la parola sia anche corpo, si sapeva, ma non è facile che quest’effetto giunga senza il flatus d’una voce, di una vibrazione sonora…ecco che m’è giunta l’immagine di “anime d’elettroni”, ossia le particelle infinitesimali che ci connettono in rete, viaggiando prossime alla velocità della luce…giunge cosi, ancora una volta, il “miracolo dell’umano” quando noi specie intelligente e fragile riusciamo a scoprire che le estensioni di noi sono sempre “noi” e la luce che ci attraversa si rifrange, così, in bagliori che luccicano fra elettroni danzanti. Si, siamo noi quegli elettroni danzanti, come le canne esposte al vento di Pascàl, fragili, ma pensanti…Come direbbe una blogger che ho incrociato di recente: Prendiamoci un bel caffè insieme.
Ciao a tutti
Franz, un navigatore cortese.
Su ” Il cantico dei drogati”
“Giocherellare a palla con il proprio cervello/cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito/ che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito”…Cosi De Andrè ne Il cantico dei drogati (1968)…Ma l’immagine di Faber può andare ben oltre il disperato uso di droghe, può figurare i fantasmagorici fantasmi d’un notturno infantile (la lanterna magica di Bergman)…può addirittura segnare l’avventura del sogno orfico e dei misteri che le Laminette di Mnemosine serbano (G. Colli, La sapienza dei Greci)…Può descrivere il dormiveglia in cui si annidano gli spettri di Schopenhauer…può segnare l’aurora sapienziale del concepimento…(lo splendido mito della nascita di Athena)…e altro, altro ancora… Grazie Faber.
Silenzio…
Shhhhhh
Incanto
Lento
Enigma
Non sciolto.
Zona estesa
In luce
O in ombra.
Chi sono?
Qual maschera o pupazzo, qui mi aggiro pronto a scrutare gli altrui mascheramenti. Chi io mi sia non può esser detto che povera sarebbe ogni parola qui prodotta. Del resto cos’è un nick o un gravatar, se non una maschera porosa aperta alle infinite ambiguità del segno, ambiguità su cui le parole spesso segnano confini labili, indistinguibilità del sé. E’ un po’ che viaggio tra i sentieri di questo blog e ho appreso che a navigare non son io ma le frecce aspre e dolci del mio dire; così fan gli altri e mille e mille mondi noi tutti ci figuriamo. Abbiamo tutti instabilità sessuale, quasi angeli, ché la scrittura si diverte a parificare i generi annegandoli nella nebbia di mille parvenze. Potrei avere mille anni o zero, esser già nato o anima imminente. Che importa?… Un saluto angelico a tutti!
Memoria (continuiamo a giocare coi generi…)
MEMORIA
Stefano Cruzzi, antropologo, percorreva gli ultimi ottanta chilometri d’autostrada. I cartelli di indicazione gli fornivano un ritmico diversivo all’alienante srotolarsi della striscia di asfalto. Avvertì, Stefano, un brivido ( di sgomento? Di piacere? ) a sentirsi protagonista di una storia che fin dall’inizio s’era segnalata deviata, imprevedibile; di tanto in tanto, quasi a rassicurarsi, allungava la mano verso il sedile alla sua destra per confermare la presenza dell’ormai consunta borsa color legno. Accendeva allora una sigaretta e riandava, accavallando pensieri, al momento in cui aveva ricevuto il pacco di Gissone. Ma più che all’urgenza con la quale l’amico archeologo lo aveva convocato, il disagio che ora provava era dovuto al contenuto di quella borsa che sentiva sotto il palmo della mano. Gissone gli aveva scritto di strani ritrovamenti subacquei che avevano avuto luogo nella zona antistante il litorale di Palmi e, sia per avvalorare l’ipotesi di stranezza, sia per permettergli di raccogliere, se possibile, documenti ed informazioni, gli aveva pure inviato un oggetto ( un oggetto? una cosa? Un…? Come definire quella forma di materia? Ora lui sapeva, correva sulla strada per portare dati, notizie… incredibili… ) rinvenuto nella zona delle ricerche ed infine una carta topografica della zona stessa.
-Gissone…Alberto Gissone… – Stefano scandiva a mezza voce il nome dell’amico – Il cinico Alberto…lui non ha il raptus infantile della ricerca ( così Alberto derideva i suoi entusiasmi ) . Per forza! Lui è il vecchio. Cazzo, quarantacinque anni, come me, ma lui è il vecchio – Che fastidio, per Stefano, non riuscire a sopprimere quella maledetta piccola dose di subalternità che si iniettava ogni volta che pensava ad Alberto. – Trent’anni che ci conosciamo? Ci siamo laureati insieme…lui, il vecchio, una sessione prima…Siamo buoni amici sin dai tempi ormai mitici…mitici? Eh, ma se non lo cerco io, il vecchio si rintana, fa l’intoccabile,lui è un ricercatore serio non ha il raptus infantile..Vibo…ancora quanti chilometri? No, lo stato d’ansia non è adatto alla guida – pensò Stefano. Cominciò allora a riservare un’attenzione maniacale ai cartelli autostradali. – Ma c’è l’uscita a Palmi? – Pochi minuti alla mezzanotte…Palmi Km.1,5…uscita 700 metri, freccia a destra…PALMI. Il caldo umido della notte d’estate e la trepidazione che abitualmente provava ogni qual volta arrivava a destinazione ( mai l’aveva avvertita come quella volta ) gli avevano imperlato di sudore la fronte e le guance. Stefano asciugò con gesto rapido le mani, anch’esse sudate, sulla tela grezza dei jeans. – Palmi Centro…no…Reggio Calabria…si, domani!…Marina di Palmi…così ha scritto Alberto: “Prendi una discesa tortuosa che in un attimo ti porterà al litorale” … un attimo, il non tempo di Alberto. Io ancora non vedo il mare…il mare! – Stefano diede un rapido sguardo verso la battigia ed abbassò il finestrino della portiera dell’auto: l’aria della notte, che lo fece rabbrividire, ed il rumore della risacca penetrarono violentemente all’interno. Doveva cercare l’hotel Candia, lì aveva fatto base Gissone.
***
Mezzanotte era ampiamente passata e Stefano si rese conto che, a parte l’assenza del portiere, era del tutto normale che la piccola hall fosse deserta.
Non trovando altro sistema di richiamo, prese a battere ritmicamente con le nocche sulla superficie del banco dell’accettazione.
– Cu è? –
Era una voce roca, cui seguì un’enorme faccia semiaddormentata ch’era apparsa tra due tendine lise, dietro il banco.
– Sono Cruzzi – rispose – il professor Gissone deve aver prenotato una camera a mio nome.
– Un momento, un momento, ca esco – disse con forte accento calabrese il portiere che uscì interamente fuori da quel bizzarro sipario, tirandosi su le bretelle
– Come aviti detto ca vi chiamate?
– Cruzzi, Stefano Cruzzi. Vi dispiace avvertire il professore del mio arrivo?
– A quest’ora? Ma a quest’ora si dorme, caro signor Cruzza ( chisto da vero mi pare ‘na cruzza ) . – Il riferimento beffardo al suo volto scavato ( il portiere ignorava le origini calabresi di Stefano ) in uno con la voce pastosa e carica di rimprovero dell’uomo, provocarono nell’antropologo fastidio e risentimento. Stefano lo osservò, gelido, professionale. Il portiere doveva aver superato i cinquanta ( terreno dell’età indefinibile ) e dava all’osservatore un’idea complessiva di rotondità: il grasso era ben distribuito ed inversamente proporzionale all’altezza che non superava il metro e cinquanta. Un viso mal rasato completava l’impressione di disfacimento.
-Cruzzi , mi chiamo Cruzzi. Lei don…don Coso, si limiti a chiamare il professor Gissone – rispose freddo e balbettante Stefano. Il portiere si svegliò dal suo languido torpore.
– Sentite – ringhiò – Io, qua, sono il padrone e mi aspetta di far dormire la gente in pace; e poi il professore ha detto di non disturbarlo e, se non vi va bene, ve ne potete pure andare.
– Ma è assurdo – sibilò Stefano non dissimulando, ormai, la collera che lo aveva investito: per poco non si ammazzava sull’autostrada, per rispondere al più presto possibile all’appello dell’amico ed ora quell’ammasso di lardo, quella caricatura di portiere, gli impediva di vederlo. Cominciò ad urlare:
– Lei…lei non può assolutamente!-
– Sta calmo, Stefano, sono qui.-
Gissone apparve sul primo ballatoio della scalinata che conduceva ai piani superiori.
– Finalmente! – Trionfò Stefano con gli occhi fuori dalle orbite.
– Vuoi spiegare a questo Caron dimonio che il sottoscritto può svegliarti anche alle tre del mattino. – Certo, certo – disse Gissone, impercettibilmente divertito – Don Antonio – disse poi rivolto al portiere – prendetevi il documento, lasciate la chiave sul banco e andate pure a dormire. Per il signore si può fare un’ eccezione.-
Con un grugnito, Don Antonio eseguì.
***
La forma scura dell’edificio che si stagliava alle loro spalle, disegnata da un incredibile controluce lunare, si propose a Stefano come un presagio. Si sorprese a considerare “giusto” quello scenario…
– Giusto? …Per cosa? – Queste domande accrebbero l’attesa di un qualche evento e gli procurarono un sottile filo di nausea alla bocca dello stomaco. -Allora, cosa hai scoperto?- La domanda di Alberto salvò Stefano dal piccolo gorgo; mise a fuoco la rassicurante figura dell’amico, seduto accanto a lui sul muretto di cinta nel giardino dell’albergo.
– Scoperto? … – Dovette, Stefano, riordinare e catalogare in un attimo pensieri pazzeschi, conclusioni incredibili. Doveva essere chiaro, preciso, niente raptus infantile. Il “vecchio” Alberto accese la sua pipa, fissandolo intenso.
– Eccolo – pensò Stefano – ora se faccio confusione sorride beffardo e, magari, mi dice…
– Sii chiaro e conciso, mi raccomando. – soffiò nel fumo Alberto.
– Gli amici del laboratorio di chimica hanno evidenziato una struttura molecolare anomala che non dovrebbe essere capace di tenere insieme neanche uno spillo. Chiaro e conciso un cazzo! – Si liberò Stefano.
– Va avanti…ho capito…va avanti.-
– All’istituto di fisica hanno riscontrato proprietà elettromagnetiche instabili, ma che trovano costantemente un equilibrio di attrazione per cui gli oggetti starebbero insieme per una sorta di solidarietà cinetica che trascende tutte le leggi fisiche che conosciamo.-
– Solidarietà cinetica?-
– Si. Reagiscono al tatto cambiando struttura e posizione degli atomi…come se cercassero un rapporto con la struttura atomica e molecolare del corpo con cui entrano in contatto…
– Un rapporto? …fantastico. – Strinse la pipa sgranando gli occhi, Alberto.
– Il raptus infantile ora ti prende, brutto stronzo – pensò Stefano e incalzò:
– In altre parole, Alberto, queste cose non sono di metallo, e sia i chimici che i fisici parlano di materia organica. Queste cose, insomma, sono vive…vive! Capisci Alberto? Maledettamente vive!-
-Lo so.- Soffiò cupo nel fumo Gissone.
– Lo…lo sai? – Farfugliò Stefano.
– Ti racconterò tutto, poi. Dimmi cosa hai scoperto nel tuo archivio.-
– La Cabala, Alberto. Per quanto ti possa sembrare assurdo, c’è una relazione tra l’esoterismo ebraico del Golem e questi oggetti.-
– Ma nell’area del ritrovamento non c’è traccia di insediamenti ebraici.-
– Questo significa poco, Alberto. Sai bene che il versante essoterico della Cabala ha prodotto, nelle aree meridionali, la manifattura di talismani ed amuleti cui le popolazioni affidano proprietà magnetiche capaci di raccogliere e portare a compimento desideri collettivi… – Statuette votive viventi…-
– Golem, appunto. Ma in un qualche punto della nostra storia, divenuti d’uso popolare, passati poi chissà come nel comportamento magico familiare delle popolazioni contadine: amuleti…talismani.-
– Non ti sembra di venire a delle conclusioni affrettate, Stefano?-
– Naturalmente gli amuleti in forma di statua dovevano essere una ripetizione che aveva perso memoria del modello: i tuoi oggetti, appunto.-
– Calma, Stefano.-
– Ho sovrapposto foto del tuo oggetto alle tipologie di artigianato magico in area meridionale…le corrispondenze sono sorprendenti; poi ho esaminato i rapporti di dimensione e figura con alcune immagini d’area precolombiana…e qui, Alberto, ho trovato una copia del reperto che mi hai inviato…
***
Si trovò in un prato immenso. Alle sue spalle avvertì una vampata di calore e vide che il fuoco, il maledetto fuoco avanzava mangiando tutto. Angela si mise a correre, altri correvano, ma sentiva al ventre la morsa della solitudine. Vedeva le cosce e i piedi nudi aggredire il terreno in un incredibile primo piano; non osava guardare avanti, sapeva che la nave era lontana, cadde…
***
– Naturalmente ho telefonato ad Ezcusa in Messico – proseguì Stefano, gratificato dal raro spettacolo del volto di Alberto, rapito e sconvolto. – Pensa, stava per chiamarmi per ritrovamenti avvenuti sul litorale a sud di Acapulco di statuette con le stesse caratteristiche chimiche e fisiche riscontrate sulle nostre.-
– Ti ha raccontato – interruppe con gravità Alberto – fenomeni particolari?-
– Quali fenomeni?-
– Ha riscontrato, per esempio, stati di choc ipnotico tra il personale della sua equipe?-
– Choc ipnotico? No. Cosa stai cercando di dirmi, Alberto?-
– Immagino che tu abbia richiesto una documentazione completa sui ritrovamenti messicani: la data, il luogo esatto, le modalità.-
– Ho detto ad Ezcusa di mandare qui a Palmi tutta la documentazione. Ma cos’è questa storia dello choc ipnotico?-
– Ti ho detto di essere a conoscenza delle proprietà organiche delle statuette, anzi questa era l’unica spiegazione da dare ai fenomeni che hanno provocato e al modo stesso in cui si sono fatte ritrovare…-
– Fatte ritrovare? ! – ripeté, turbato, Stefano. Di colpo si stava rendendo conto del “pericolo” con cui aveva viaggiato. – Perché mi avevi nascosto questa cosa? –
-Solo ora ne ho avuto conferma. Vedi, ho dovuto confrontare le testimonianze della gente del posto con le narrazioni di Angela.-
– Le narrazioni di Angela? Non ti seguo…e poi, chi è Angela?-
– Hai ragione – Alberto, con gesto per lui insolito, strinse le mani dell’amico con forza, caldo, rassicurante – Ti racconterò tutto…
***
Cadde, Angela, e sentì la vibrazione sorda della terra sotto il suo corpo…
***
– Ci sono momenti – cominciò Alberto – in cui si manifesta l’inutilità della tua preparazione scientifica e ti senti impotente, disarmato, debole. E’ una fase in cui impari ad affidare a chi ti sta vicino la credibilità che gli spetta. Ebbene, uno di questi momenti è coinciso con l’inizio di tutta la faccenda. A proposito…Angela, Angela Forese è una mia giovane assistente, si è laureata con me e lavora nel gruppo da un paio d’anni.-
– Com’è? – Chiese Stefano, quasi a voler allentare la tensione o, forse, perché gli piaceva ristabilire con l’amico un piano di complicità infantile.
– Non male – disse Alberto, abbandonandosi ad un sorriso disincantato – anzi, decisamente bella, domani la conoscerai…Dio, Stefano, è così difficile raccontarti questa storia…non giocare, ti prego…-
– Parlavi di una crisi – disse Stefano annuendo.
– Già. Eravamo a un punto morto. Le ricerche su possibili insediamenti fenici in questa zona si stavano rivelando un enorme fallimento, una brutta faccenda, m’ero reso conto di essere stato coinvolto in una operazione clientelare…-
***
Angela tentò di rialzarsi, ma si aprivano abissi e lingue di fuoco. Prese rapida il suo idolo, lo sollevò… ed urlò… urlò oltre l’umano, oltre il corpo…
***
Da una finestra al primo piano dell’edificio un bagliore intermittente, come un fascio di luce impazzito, inondò il giardino in uno con un urlo prolungato, folle… Trovarono Angela raggomitolata sul pavimento, nuda, raccolta, ma con le braccia tese e, fra le mani, una statuetta simile ad un ostensorio.
– Ancora – disse Alberto – ancora. E’ come una droga!-
-Faime…faime…rama nama dum – sillabava Angela tra le labbra di ghiaccio. La statuetta brillava, creando nebbiose oscillazioni visive…
– Cos’è? …Cos’è? – Urlò Stefano. Non ebbe risposta. Rapido e deciso, come solo chi sa cosa è necessario fare, Alberto prese da terra un contenitore metallico e, con dolcezza, si accostò ad Angela.
– Angela – disse; lei assentì e lasciò che Alberto le tirasse via dalle mani la statuetta, da quelle mani nervose, pulsanti, quasi perse nella materia dell’idolo. Alberto ripose l’oggetto nel piccolo sarcofago metallico e la vibrazione cessò. Tra piccole convulsioni, lentamente, Angela acquietò il suo spasmo. Alberto, che agli occhi di Stefano appariva sempre più padre premuroso, aiutò Angela ad adagiarsi sul letto, la ricoprì con lenzuola di lino fresco, le accarezzò i capelli, le asciugò la fronte poi, osservando Stefano, ancora in attesa di una risposta:
– pare che emettano fasci di particelle – disse – abbiamo provato a chiuderli in cassette di piombo. – -Io…io…ho viaggiato…con…dico nella mia valigia – barbugliò comicamente Stefano.
– Fortunatamente non sei il loro tipo. – Che vuoi dire? –
– La trance ipnotica non è indotta in chiunque le tocchi; cercano il contatto con soggetti predisposti, emettendo fasci che producono come una distorsione del campo visivo. Lo hai visto poco fa con Angela.-
– Sarebbe interessante sapere che effetto provoca il contatto.-
– E’ come una vibrazione dentro – sussurrò Angela, aprendo appena gli occhi ancora persi in un dove, in un quando indeterminati.
– Si avverte come un richiamo sonoro che avvolge poi altri livelli di percezione – intervenne Alberto – una perdita di ogni cognizione spazio/temporale. Cominciano a spuntare fuori con frequenza inaudita, la gente del paese, qui, comincia ad avere paura…
– Anche io ho paura – ansimò Angela.
– Starò con te, stanotte – carezzò Alberto con voce grave.
– Posso fare qualcosa io? – Intervenne Stefano, ma la lieve negazione che apparve sull’increspatura delle labbra di Alberto lo fece ritrarre e, quasi, intimidire.
– Va a dormire, mi pare che anche tu sia molto stanco…domani…domani ti metteremo a parte di tutto, magari ti mostreremo il luogo del primo ritrovamento.-
-Ho capito. Buonanotte Alberto…buonanotte Angela…- Angela sorrise lieve, socchiudendo lo sguardo e le labbra in un atteggiamento di languida divertita curiosità.
– Ci conosceremo meglio domani – sentì di dire Stefano prima di uscire. Chiuse la porta della stanza , Stefano, badando bene di fissare nella sua retina quel volto enigmatico, mosso…Era bella…rara… una piccola anfora tremante.
***
Dal diario di Stefano Cruzzi, 2 maggio xxxx.
Quanto siamo disposti a mettere in discussione tutta la nostra storia, per intero, i piani del nostro vissuto, in una notte? Dalla terra spuntano segni che irridono gli equilibri della scienza e della norma…Il mare ha restituito la tessera centrale di una memoria che ci spossessa… E’ un gioco? E’ il ribaltamento a ritroso delle tessere di un domino? Ed io, noi, che numero siamo? … appunto personale: Angela, resterò ancorato ai tuoi occhi.
***
Gennaro Ristori, giovane di bottega, lasciò all’alba i suoi pani caldi di forno e s’incamminò verso casa, semidormiente, lungo il litorale…Avvertì la vibrazione dopo un centinaio di metri, come una musica tesa che lo portò d’istinto verso il mare…
– Cu è ca canta? … Madonna! Focu mio, focu ca me piggliau! –
Lì, sulla battigia, la statuetta rosso fuoco lo chiamava…lo chiamava e Gennaro si avvicinò e l’afferrò in una presa spasmodica ed i contorni di tutte le cose si fecero distorti…
***
Stefano attendeva Angela ed Alberto nella piccola hall sorseggiando un caffè poco bevibile, comunque caldo e concreto.
La sua mente era confusa e vaga nell’affastellare ipotesi, timori, baloccandosi nel gioco dell’attesa di novità incredibili. Non si aspettava certo di trovare in Calabria un così radicale mutamento alla prospettiva dei suoi studi, delle sue credenze. Amuleti viventi, radioattivi! Non il prodotto di fantasie mitiche popolari, giochi di un’umanità primitiva e poetica, ma il segno vivente di un’incredibile magia o, ipotesi ancora più sconvolgente, la traccia di una civiltà giunta nell’evoluzione sino al potere del recupero di facoltà mentali assolute…
-Forse è meglio tenere un atteggiamento più distaccato, non ti pare?-
Angela era seduta di fronte a lui, appariva stanca, dolcemente stanca.
-Forse- ripeté automaticamente Stefano, emozionato più di quanto volesse, incapace di cogliere la sostanza di quello strano sentimento che gli incuteva ora Angela. Stefano avrebbe voluto porre domande, indagare, ma si impose il silenzio, si impose d’osservare e di scrutare con discrezione e una punta di timore.
Angela rimestava lo zucchero del suo caffè col fervore distratto di un chimico.
-Se puntiamo il nostro sguardo sul liquido ci sembrerà di vedere galassie- disse Angela con tono serio, caldo. Stefano fissò la sua tazza vuota. Gli stringeva il cuore quella strana creatura che avvolgeva spire cosmiche nel caffè con un cucchiaino di stagno.
-Si fredderà- disse, sentendosi immediatamente banale.
-Già- rispose Angela- è la mania di sfidare continuamente l’abisso- e prese a sorseggiare il suo caffè.
-Ti va di parlare di quello che è successo stanotte?- azzardò Stefano, pentendosi d’aver provocato in lei un leggero irrigidimento- volevo dire… in somma aiutami a capire.
-E’ come la solitudine- disse Angela con una punta di vaghezza- come nebbia negli occhi…con un gesto disperato apri le mani e stringi la cosa e ti incammini contro i fatti reali… allora vedi aprirsi un baratro nel tempo…alle tue spalle lo zero, davanti l’angoscia di uno spazio/tempo infinito…senti la memoria spossessata ed è lì che urli, urli ma non lo fai con il tuo corpo e… l’urlo è il segnale di un dubbio inaccettabile, il tuo io esplode… ne avverti progressivamente l’assenza imminente, disperatamente cerchi di arrestarne il defluire, poi, di colpo, accetti il cambiamento e sei un altro, in un altro tempo, in un altro luogo e, dappertutto, immagini di morte…-
Ansimava fragile,come avvolta nelle spire cosmiche del suo caffè, e Stefano si rese conto di stringerle forte le mani, forte fino a farle male.
-Ecco Alberto- si rilassò Angela- ti portiamo sul luogo del primo ritrovamento.
***
Dal mare giungevano segnali.
Indecifrabile, impercettibile senso di malessere. Stefano fissò la baia come volesse stabilirne contorni diversi, come volesse dar corpo e sostanza all’ansia che quel luogo gli trasmetteva. Scrutò Angela e notò anche in lei i segnali di una forte eccitazione repressa. Alberto invece era cupo (o almeno Stefano lo vedeva tale), cupo e teso come il cielo che incombeva sulla baia. Uno strapiombo roccioso che spezzava, di colpo, la dolcezza della costa sabbiosa. Un sentiero di fichi d’india e di sterpaglia assolata scendeva verso il fondo, unica via di accesso per bagnanti avventurosi ad una minuta fettuccia di spiaggia che solo ora Stefano intravedeva…giù, giù, in fondo, verso il mare lungo la parete di roccia per un incerto sentiero… giù, giù, in fondo…il mare e il vento caldo agitato come da un piccolo vortice…
-Dietro quello spuntone di roccia…- indicò Alberto.
***
Dal diario di Stefano Cruzzi., 10 luglio xxx,Palmi.
Portato tutto a Napoli. Organizzare il materiale, mettere in ordine pensieri, appunti:in Italia:
Calabria, Palmi: entroterra e litorale(marzoxxxx)
Sicilia- Etna. Versante sud (maggio xxxx)
Campania- Litorale di Cuma (giugno xxxx)
Sud America: Messico- Puerto Escondido (marzo xxxx) Perù- ……. (aprile xxxx)
Haiti ……… (maggio xxxx)
Notizie di ritrovamenti in Iran, in Libano, in Libia, in Egitto, In Grecia. Notizia ieri di quest’ultimo ritrovamento. Verificare l’eventualità del privilegio del bacino mediterraneo e la Koinè mitica di tutti i luoghi in cui l’evento si è verificato. Ad un primo esame gli “oggetti” sono coevi. Datano circa 35.000 anni (la datazione è incerta , reagiscono in maniera instabile al bombardamento del carbonio 14).Permanenze di civiltà primordiali, lì dove sapevamo, ma non “quando” sapevamo.
C’è un sequenza logica nel tempo dei ritrovamenti.
Ipotesi:
Casualità (la escludo).)
Esito sincronico di diverse ricerche parallele (improbabile).
Precisa volontà e programmazione degli “oggetti” (ipotesi di Alberto). Se Alberto ha ragione è terribile.
Un orologio spazio/temporale è scattato sull’ora zero. Chi lo ha programmato? O, chi lo ha attivato? E soprattutto, perché?…Perché?
***
Antonietta beccò l’oggetto mentre esaminava lo stato di salute dei broccoletti nel piccolo orto messo in opera a ridosso del tempietto ai piedi dell’ acropoli di Cuma. Ignorava, naturalmente, Antonietta la divinità cui la piccola costruzione era dedicata; dovevano averla ignorata, del resto, o, quantomeno, rimosso anche gli esperti della soprintendenza visto lo stato di abbandono in cui versava quella permanenza archeologica.
La donna aveva favorito quella “dimenticanza” evitando, accuratamente, di estirpare l’intreccio di sterpaglie, rovi ed erbacce che, di fatto, avevano reso il luogo inaccessibile.
Antonietta era fiera di quel piccolo orto; per lei era assurto a simbolo di una significativa vittoria nei confronti del marito ,timoroso di infastidire le autorità che gli avevano concesso l’uso d’una abitazione in tufo all’interno degli scavi ed una saltuaria guardiania arricchita dalle mance di studiosi improvvisati e turisti.
Gaetano De Simone era un uomo assai piccolo di statura, dall’occhio vivace, ma un po’ acquoso proprio di chi ama la libagione bacchica; Antonietta, dal canto suo, era una sorta di virago, scassata rimanenza di una bellezza mediterranea sfiorita assai presto. Il brav’uomo s’era lasciato convincere quando ‘Ntunetta gli aveva incontrovertibilmente dimostrato la totale esclusione del tempietto dal percorso degli scavi. L’occupazione era poi stata completata, di comune accordo, con una invalicabile recinzione abusiva.
Antonietta, come era suo costume per le novità che non aveva del tutto verificato, tenne all’oscuro Gaetano a proposito dello strano ritrovamento avvenuto, in condizioni inquietanti, ai piedi dell’antica ara del tempio. Era accaduto all’imbrunire mentre la donna stava controllando, ad una ad una, le foglie delle sue insalate. Dalla natura incolta che avvolgeva la struttura sacra era giunto come una sorta di sibilo, un piccolo vento che dall’interno s’era messo ad agitare le erbe e i rampicanti , s’era infilato oltre i rovi colpendo freddo ed inatteso il volto segnato di Antonietta chino sulle verdure. Per quella donna la paura si trasformava, sempre, in una sfida. Armata solo delle sue mani toste, si fece strada in quella giungla domestica ed entrò oltre il pronao, nella saletta centrale e, lì, nel controluce del tramonto che sembrava avere bagliori più intensi vide la cosa. Non si perse d’animo, avvolse l’idolo in un vecchio straccio che adoperava come grembiule e gelosamente lo nascose in un angolo del capanno degli attrezzi. Alle prime luci dell’alba, lei, la prima ad alzarsi, l’avrebbe studiato più attentamente ed avrebbe riflettuto su cosa farne e, soprattutto, su cosa ricavarne.
***
Il mago di Torre Annunziata, Il Grande David, come amava farsi chiamare, spiritò gli occhi più che poté fissando la reliquia che si ergeva al centro del tavolino di finto mogano. Di fronte a lui, stravolta al limite della crisi, Antonietta. Il rosso e il nero dominavano quell’ambiente bizzarramente illuminato dal basso, vibrazioni new age un po’ casarecce erano diffuse da piccoli gracchianti altoparlanti recuperati da David , in uno con l’impianto, in una grandiosa svendita nella vicina Castellamare.
Era una baracca a ridosso della infrequentabile spiaggia di Torre, forse un vecchio capanno di pescatori.
Sta di fatto che Peppino Rovina, in arte il Grande David, l’aveva rilevata da una coppia di zingari con suppellettili e annessi per la somma di cinquecentomila lire. Poi pennelli, colori e stoffe del mercato di Resina avevano fornito la materia della ristrutturazione “magica”, compresa la scritta fluorescente che appariva all’ingresso della baracca:
Il GRANDE DAVID. ESORCISMI E FATTURE BENIGNE.
David/Peppino alzò lo sguardo intenso verso Antonietta e prese ad armeggiare scongiuri in una lingua che lui affermava essere aramaico, poi, di colpo, afferrò la donna per i polsi e prese ad inveire:
-Tu, donna, confessa il commercio con il male. Perché chiami Volto Santo questo demone cornuto? Tu dici di aver visto il Salvatore nelle fiamme dell’inferno. Io scaccerò da te il demone che ti ha condotto alla bestemmia! Kirie, Kirie! Tocca, ora! …Tocca!… E rinnega l’idolo!
-Urlò, Ntunetta, disperata, cercando di liberarsi, sapeva che toccando l’oggetto sarebbe accaduto di nuovo.
-Tocca, donna! Non temere, tocca!-
Con uno strattone il Grande David impose le mani sgranate di Antonietta sull’idolo. Spasmi e tremore diffuso.
-Ecco, vedi, la fattura è scomparsa…rilassati donna, ti darò l’alone protettivo…-
Profondo il turbinio incandescente prese a salire in vortice, Antonietta lo riconobbe, ma non riuscì a staccare le mani dall’oggetto.
-La mia forza è su di te- millantava David.-
Antonietta prese ad urlare per il gran fuoco dentro. A quell’urlo il mago ridivenne il povero Peppino Rovina ed impallidì. Non aveva mai udito la vera voce del demonio. Ora il male gli era di fronte con gli occhi di brace ed il rantolo selvaggio…
Il terremoto arrivò improvviso squarciando il pavimento della baracca e, dallo squarcio, le fiamme. Goffo, nel suo turbante di pezza, Peppino Rovina, in arte il Grande David, tentò il suo primo, vero, eroico esorcismo: incrociò gli avambracci in segno di croce, ma fu inghiottito con Antonietta, mentre intorno esplodeva l’inferno.
***
La notizia dello strano terremoto di Torre Annunziata arrivò a Stefano attraverso il giornale radio delle otto, sua solita radio sveglia. Un terremoto bizzarro, di superficie, con un raggio d’azione non superiore al chilometro. Distruzione totale all’epicentro, durata sette secondi, nessuna replica. Decisamente bizzarro. Stefano avvertì uno strano senso di malessere. Decise, allora di chiamare Alberto, chiedergli, magari se non era il caso di andare a dare un’occhiata. Senza avvedersene compose il numero di Angela. Se ne rese conto quando avvertì nella cornetta l’inconfondibile voce roca di Emma Forese, la madre.
-Fa niente- pensò- meglio così.-
-Angela è uscita presto stamane, dottor Cruzzi.-
-Sa dirmi dove è andata?-
-A Torre Annunziata, con il Professor Gissone, sono partiti alle cinque, non so altro.-
-Mi basta la ringrazio.- Stefano attaccò, gelido, la cornetta, preso dal sentimento dell’esclusione. Non era la prima volta che gli capitava quando c’era di mezzo Alberto.
***
I camion dell’esercito, sparsi sulla spiaggia nerastra, davano allo scenario una natura irreale, in uno con la sfocatura data dall’escursione termica e dai tubi di scappamento. Stefano non sapeva esattamente cosa aspettarsi, tuttavia provava la netta sensazione da “soglia dell’orrore”, come era solito lui definirla, ed i passi verso questa soglia erano scanditi, sempre, da una forte e ritmica pulsazione alla bocca dello stomaco. Nausea imminente.
–Angela!- pensò forte- Angela!…- Aprì la portiera dell’auto e fece per scendere,
-Ero sicura che ci avresti raggiunto.-
-Angela!-
La nausea si ritirò nel suo ripostiglio mentale.
***
In silenzio, tra lo scalpiccio dei loro piedi sulla nera sabbia ed il rincorrersi delle voci di richiamo, Angela e Stefano sfioravano l’agitarsi convulso delle tute mimetiche dei genieri; strumenti di rilievo apparivano sparsi, come a caso, avvolti in un fumo denso ed acre. Il ritmo della pulsazione d’orrore apparve di nuovo e Stefano volle stringerle la mano, stabilire un contatto disperato cui Angela rispose con il palmo della sua mano e gli occhi struggenti.
-Ecco! È laggiù.-
Seguì, Stefano, la direzione di quel caro braccio teso e vide…
Un’enorme voragine ad una cinquantina di metri dalla battigia emetteva volute di fumo che assumevano una strana contorsione a vortice.
-Paolo e Francesca- si sorprese a pensare, stupidamente, Stefano e stava quasi per attaccare, tenero, “Amor a nullo amato”… quando…
-Anche lei qui?-
La profonda ed autoritaria voce di Lugo, direttore dell’Ossevatorio vesuviano, lo strappò via dal languido universo dantesco.
– Gissone, glissiamo pure sulla tua competenza in una faccenda come questa, ma addirittura disporre per l’arrivo di nuove attrezzature, senza neanche consultarmi, andiamo, mi pare eccessivo e, te lo ribadisco, decisamente scorretto!-
La figura di Lugo era sempre piaciuta a Stefano; era uno di quei tipi umani scolpiti nella pietra, dotati di una sorta di eterna giovinezza che donava loro un naturale carisma, era insomma per Stefano una di quelle “superiorità” accettate con fiducia.
Era ovvia, l’evidente, seppur non scomposta, ostilità che Peppe Lugo stava ora esprimendo ad Alberto e che aveva espresso a Stefano risvegliandolo dal suo dolce orrore. Un archeologo ed un antropologo sul luogo di quella che, ancora, appariva come un’espressione tellurica dell’area vesuviana, una visita che in un simposio sarebbe apparsa cortese, anche se irrituale, ma nel pieno di una crisi!
-Sai bene che non è il mio stile- ribatté Gissone stringendo forte con il pugno il fornetto della sua pipa- ma ti assicuro che il tempo stringe e che se non lo troviamo , può succedere ancora e… peggio!-
-Peggio cosa?!- farsettò garrulo il colonnello De Ritzis- una bomba, forse? Lei, dottore, sembra molto informato su quanto è accaduto qui questa notte. Parli chiaro, forse più che il Geiger servono gli artificieri.-
No!…No!- spazientì Alberto. Un cenno d’intesa ad Angela, che tirò fuori dalla sua cartellina le foto degli idoli.
-Ecco-disse perentorio Gissone- con l’aiuto del Geiger potremmo trovare uno di questi.-
Ritzis e Lugo si palleggiarono stupefatti le foto.
-Vi assicuro- proseguì Alberto- che è meglio, molto meglio, se siamo noi a rintracciare uno di quei “cosi”, prima che sia lui a farsi trovare.-
-Farsi trovare?!- cantilenarono il militare ed il vulcanologo.
-Farsi trovare!- maramaldeggiò Stefano emettendo una risatina nervosa, molto simile ad un grugnito sommesso.
-Ma siete impazziti?- Sibilò Lugo senza ritegno- che merda di scherzo è questo?-
-Magari fosse uno scherzo, Peppe. Hai una qualche spiegazione per questo fenomeno?- Chiese serissimo Alberto.
-No!- Ammise Lugo, colpito dalla determinazione del collega archeologo, un tipo che, in fondo, fraternamente stimava- Proprio no!- ripeté grave- non ancora, almeno.- -Via dottore!- Ironizzo, fuori luogo, De Ritzis- capisco che per un archeologo sarebbe un bel guadagno se le statuette si facessero ritrovare spontaneamente…-
-Gli idoli sono radioattivi e di natura organica- s’indurì Alberto, mostrando la relazione dell’Istituto di Fisica che Angela, premurosamente, gli aveva già passato…
***
-E’ qui…- soffiò Angela.
Dalla voragine, urla e urla e urla! E poi, bagliori e, con un rombo, il tremore cupo della terra.
Il colonnello De Ritzis prese a sbraitare ordini. Gli uomini in tuta correvano come impazziti, chi verso la voragine, chi fuggendone. Lugo si girò verso l’incredibile, immobile, basito, affianco a lui come a sorreggersi, caldo e amico, Alberto.
– Angela!- Stefano, rapido, aveva intuito che la premonizione era un segno del coinvolgimento. Il ritmo delle pulsazioni d’orrore divenne parossistico quando vide Angela, sospesa in trance, sul ciglio della crepa. La raggiunse, l’abbracciò, la tenne… Lei non “c’era”. Stefano la cercò, allora, nello specchio d’abisso delle sue pupille dilatate e…
***
Rahama correva verso quella che, forse, era l’ultima nave… correva, con a fianco Nahama… si voltò, per incoraggiarne la corsa, ma tra le esplosioni di fiamma e l’aprirsi squassato della terra, non trovò tra i volti ed i corpi stravolti degli ultimi fuggiaschi, quello del suo gemello. Chi lo urtava, chi lo guardava negli occhi, stranito, chi lo afferrava per dirgli che era troppo tardi… “Troppo tardi!…” Rahama non vide e non sentì più nulla. – Nahama- pensò- è nel tempio! Non posso lasciarlo, non posso!- Strinse la tracolla di pelle, colma di idoli della memoria, i preziosi idoli dell’eterno ritorno, e prese a correre contro il tempo, contro il fiume turbinoso della fuga. Fantasmi di un angoscioso presentimento gli spezzavano il fiato annebbiandogli, per sua buona sorte, le immagini della catastrofe. Brani di incubo sulfureo gli essiccavano le narici e il petto. Saltò, con perizia disperata, squarci e voragini che si saziavano d’ altre vite…ed ebbe pietà per la sua gente…ebbe pietà per la sua specie…Il tempio! Il metallico e verde tempio dell’Eterno Ritorno era in piedi!Di colpo Rahama tornò lucido, sereno; distese le membra contratte, allungò il respiro e s’avviò, chiamando il fratello, oltre il bagliore delle colonne……Nahama!- Urlò Stefano. Nahama!- Urlò. Fra le oscillazioni cremisi di uno squarcio di fiamma Rahama vide il corpo teso del gemello masticato sino alla cintola da una piccola, maledetta bocca di terra. Lo schiacciamento dei nervi cervicali aveva trasformato il corpo di Nahama in un’agghiacciante scultura di carne; tra le mani, tese verso l’alto, l’idolo mnemonico vibrava ancora del transfert appena compiuto. Non perse l’istante, s’accostò al fratello, afferrò il prezioso lare cogliendo l’ultimo guizzo vitale dal fondo di quegli occhi sbarrati.
* * *
Riemergendo dalla vorticosa spirale dell’esperienza, nuovissima, dello spossessamento, Stefano sentì il vento pungente di sale, l’aria acre di fumo, il dolore/calore della stretta spasmodica di Angela… e vide… vide ciò che sapeva e temeva di dover vedere: Il giovane corpo di un soldato, come un’agghiacciante scultura di carne, masticato sino alla cintola da una piccola, maledetta, bocca di terra… tra le mani tese verso l’alto, l’idolo mnemonico vibrava ancora del transfert appena compiuto…
* * *
Rotoli con grafici di antichi sismi, in uno con improbabili piramidi di relazioni e fascicoli, si affastellavano nell’ufficio di Lugo, tra volute di fumo disegnate,nervose, dalle sigarette del direttore dell’Osservatorio e dalla pipa di Alberto.
Lugo troneggiava, serio, dietro la scrivania simil-mogano, osservando le foto e le relazioni che Alberto gli aveva dato in visione; Alberto era in piedi, affianco, spippando serissimo; Angela,con emozione intensa di Stefano, era accovacciata sul bracciolo dell’unica poltrona dell’ufficio, più giù Stefano lì sprofondato, attento, ma rilassato, tanto ci stava pensando Alberto.
-Idoli mnemonici, cazzo!-
Imprecò Lugo che, nello spegnere la sigaretta, aveva provocato un’eruzione di cenere e lapilli dal microvulcano che,con sarcasmo affettuoso, un qualche giovane ricercatore gli aveva donato.
-Arrivo a intendere che qualche forma di allucinazione indotta-proseguì il vulcanologo-possa provocare una convulsione, uno spasmo, ma l’apertura di una voragine!Che la reazione molecolare innescata dall’idolo, come dite voi, dal sistema nervoso periferico raggiunga i centri sensoriali del cervello, ammettiamolo!Ma i movimenti tettonici non sono e non possono essere governati da un corto circuito mentale, non possono!…-
-Eppure è così.-Sereno, come sempre, interloquì Alberto.
-Angela ed io abbiamo visto-intervenne Stefano-…sentito…quello che è accaduto a quel povero ragazzo, il soldato…accadeva, o, meglio, forse è accaduto da un altra parte, chissà dove…
-o chissà quando- disse Angela…
-Dove?Quando? Ma di che stiamo parlando? Non c’è un solo dato concreto, solo supposizioni…-
Più che spazientito, Lugo aveva dato, a quest’ultima considerazione, un tono angosciato, sospeso, interrogativo…
-Il punto è che non si tratta di una semplice interferenza tra la mente e la materia circostante…vedi Peppe – disse Stefano- qui è messa in gioco l’esistenza stessa della mente, almeno come l’abbiamo sempre intesa…voglio dire, ecco, della mente individuale…
-E’ così-sospirò Angela-io, quando sento,non sono sola, è come se appartenessi ad un gruppo, una comunità…
-Già, abbiamo a che fare con dei Lari che non si limitano a rappresentare la memoria, ma lo sono…Il problema è: perché? A che scopo?-
Tutti osservarono Alberto che, grave e leggero come sempre, aveva esplicitato la domanda, semplice e terribile : perché? E, soprattutto, chi? PAGE µ16§
Nero…un gioco di “genere”
Nero
di Franz…
Quella notte…
ero deciso a chiudere in fretta il mio solito giro. Il vento canalizzato del crocevia tra Burbon street e Old Vic avenue aveva quasi capottato la mia vecchia Buick modello 35.
Io sono uno che di notte vive quasi per intero il suo turno di vita, eppure quella notte mi sentivo “fuori” ; una sensazione che Jim j. Wardoch, che poi è il mio nome, prova raramente, solo quando qualche maledetto figlio di puttana decide di spezzare la sequenza delle tessere del domino. Già, sono convinto che viviamo concatenati come nell’ inevitabile sequenza di quel gioco del cazzo. Qualcuno aveva spezzato in maniera incongrua, imprevista, la catena degli accostamenti ed aveva fatto fuori una tessera eccellente. Come facevo a saperlo quella notte tra Burbon street e l’Old Vic avenue? Non si farebbe il mio mestiere se non si possedesse il sesto senso della morte. Una brutta espressione, lo so, ma ogni volta che mi si presenta l’angoscia di una perdita violenta, ronzio nelle orecchie, senso di smarrimento, incazzatura nera. Sono un poliziotto, è chiaro, un sergente della omicidi e quella notte non mi andava proprio di completare il solito giro. Quella notte, già. 7 giugno 1938.
***
Burbon & Bourbon , all’angolo tra L’Old Vic avenue e la Burbon street. Un locale a frequentazione mista: ceffi e vecchie glorie del senato in cerca del brivido proibito del gioco…Roulette, baccarà, chemin…tutto ribaltabile in tranquilli tavoli tondi da vecchio caffè art nouveau. Tutto ribaltabile, come l’anima candida del senatore Le Goff. Era un pollo il senatore Le Goff, ma un pollo gaglioffo, impettito nella sua divisa di ordinanza da vecchio maschio ruspante. La notte tra il 6 ed il 7 giugno del 1938 era al tavolo della roulette il senatore ed aveva appena puntato sul 12, un numero che lo aveva sempre ossessionato, anche nei sogni. Diceva Le Goff che il 12 rappresentava “la gloriosa rigidità del maschio eretto accostata alla sinuosa curvatura della donna accogliente” ; lo diceva enfiando il petto e tentando disperatamente di restringere il diametro del cerchio nel quale erano inscritti il suo ventre e le sue natiche. Proprio le sue natiche: portava, infatti, il senatore un culo altissimo, era il suo orgoglio.
Quella notte tra il 6 ed il 7 giugno aveva puntato sul 12 il senatore e, nel fumo aspro del Burbon & Bourbon, “vedeva” la rigidità del corpo maschio accostarsi alla sinuosità del corpo femmina. Era una fantasmagoria di colori e di suoni, di sospiri e di attese. Di fronte a Le Goff, a dare maggior corpo ai suoi sogni, Vivy il 2 più sinuoso che il senatore avesse mai visto. 12!!! Rouge, pair e manque. Rouge. Rosso come un fiore o come un forellino all’altezza del cuore, un bel fiore all’occhiello che il senatore si vide spuntare come un piccolo fiotto di colore nel prato annerito del suo petto di maschio rigido.
***
Accostai la vecchia Buick nera all’incrocio con l’old Vic avenue, deciso a bere qualcosa al B & B. Sapevo bene che era una merda di bisca, ma quando mi prendeva il sesto senso di morte era proprio una merda di bisca il primo posto da visitare. Entrai.
***
– Jimmy, bevi un noir con me, prima che ti venga la fregola di incastrare la bestiolina che ha fatto secco Le Goff. –
C’è poco da dire, definire Vivy una entrenouse è decisamente da coglioni impenitenti.Vivy è la gatta del B & B e, come gli etologi sanno, porta sempre un che di indecifrabile che ti fotte e ti attrae.
–Le deux, micetta, le deux, fammi portare il noir carico come sai (gli ingredienti del cocktail ve li do in appendice bevitori colti del…) e miagolami il disastro, qui, nell’ orecchio sinistro. –
Sorseggiavo la specialità della casa mentre Vivy tentava di ipnotizzarmi con svolazzi e gridolini di sorpresa nel mio Eustacchio preferito; la squadra, intanto, stava portando via il culo trionfale del senatore.
***
Non era certo stata la pallina della roulette a bucare il petto e il cuore di Jacques Le Goff, ma un qualche ruolo la sorte rotante del tavolo verde lo aveva pur avuto. Urlava da matti il vecchio Jacques poco prima che lo stecchissero; i suoi occhi strabuzzati di eros panico erano puntati verso Vivy che gli stava di fronte lanciandogli segnali carichi di promesse di incanto. Era un accordo abituale tra il senatore e la gattina del B & B. – Quando mi avvicino al tavolo per puntare sul mio 12 – le aveva detto – stammi di fronte più calda e sinuosa che mai, tu sarai il 2 ed io, dritto, sarò l’ 1 che ti prende.-
L’1 e il 2 s’erano presi splendidamente quella notte lì sulla gran ruota rutilante del tavolo da gioco mentre Le Goff aveva beccato lo 0, il numero maledetto del giocatore, ed aveva perso anche l’ultimo fiato.
– Mi hai sussurrato poco, micetta – le dissi, sorseggiando il fondo del noir – farò comunque il mio gioco, come dite qui, e chissà che non possa, presto, dire all’assassino rien ne va plus.
***
Vous avez bien compris che il teatro degli eventi che mi va di raccontare è una ville della vecchia America fondata da coloni francesi. Un luogo di culture sovrapposte dove avvengono strani connubi, intrecci meticci che sviano vite “regolari” verso sentieri tortuosi che conducono a fortuna o a morte, o a entrambi, come era avvenuto al senatore Jacques. Una storia “deviata” che ha lasciato il segno nella deriva della mia vita di poliziotto e che, oggi, provo a ricostruire per me e per voi, magari per inaugurare una fortunata collana di neri che ospiti i segreti più o meno falsi dei sergenti ad istruzione superiore. Bon, una storia deviata, dicevo. Il mio intuito mi spingeva ad arretrare di molto la ricerca del punto di origine, la devianza che, in una sequenza inesorabile di atti, aveva portato Le Goff alla rigidità perpetua del suo amato 1, quella notte tra il 6 e 7 giugno del 1938.
***
Casa Le Goff, 8 giugno 1938, ore 11 e 30 (rubo appunti dal mio diario diligente, perché s’erano fatte le sei del mattino e m’avevano bruciato l’esofago e la mente sette noir e le labbra di Vivy).
– Bon jour, monsieur Wardòch, la stavamo attendendo…
– Bon jour a toi, mamie, posso vedere madame Le Goff?
Per un sergente d’origine irlandese , un po’ goffo e rozzo nell’andatura, me l’ero cavata egregiamente nel cerimoniale d’esordio, fortunatamente abbreviato da una opportuna telefonata di preavviso.
Nella penombra anticalura del salottino di ingresso mamie mi appariva leggermente in controluce. Era , mamie, un magrissimo e sdentato residuo des esclaves di origine haitiano-africana, alta e dalle braccia lunghissime, pareva uno degli arbusti contorti della dantesca selva dei suicidi. Con una tensione quasi biblica nel suo lungo braccio destro. mamie mi indicò una porta a destra dello scalone centrale.
– Entrée icì , monsieur Wardòch.
La fascinosa raucedine della sua voce e il gesto sciamanico della gran vecchia, mi portarono ad una esecuzione quasi automatica dell’invito, il mio io irrigidito mi concesse solo una piccola libertà: girai, leggermente, le orbite del teschio (pardonnéz moi, colpa delle cattive frequentazioni) a sinistra, verso l’alto dello scalone di marmo a guida violacea. Feci giusto in tempo ad intravedere l’orlo di un merletto bianco che oscillava a ritmo lieve tra i fregi liberty della balaustra, promessa di una presenza, di un avvento, dalla biforcazione sinistra della lunga teoria di scalini.
***
Puntata 2. “Un monaco, naturalmente”
Un monaco, naturalmente.
Il primo approdo, dopo l’atto di pirateria del figlio, è per Settembrini in Irlanda, l’irrequieta e cattolicissima Irlanda. E, a Cobh, nota, allora, come Queenstown,una notte, in una locanda, in attesa di trovare una nave per l’amata Inghilterra, il patriota-letterato riceve una strana visita…E qui, lettore ansioso, interrompo la mia incerta ricostruzione e riporto le pagine del quaderno che ho ritrovato (dirò, certo, poi, come) nelle quali Luigi Settembrini ha registrato l’incontro con il personaggio che gli ha ‘prestato’, per una notte, l’inedito seguito lucianeo de La storia vera:
I NUOVI LIBRI DI LUCIANO
(note su di un’incredibile lunga notte)
Di Luigi Settembrini
“Una pinta di guinnes e del pesce fritto mi avevano, misericordiosamente, predisposto ad un sonno ristoratore quando, nel suo inglese a forte accento gaelico, la rossa e rubiconda Susanna ‘O Grady, padrona del The Cove mi invita, dura e gioviale, ad accogliere un inatteso ospite al mio tavolo. Le chiedo sorpreso di chi mai possa trattarsi, quando lei si sposta, gentile e suadente, per far spazio ad una figura che, nel barlume oscillante delle lucerne, mi parve un inquietante presenza, figlia dell’eccessiva libagione di birra che m’ero concesso a rifugio dell’emozione per la fortunata svolta che aveva preso il mio viaggio verso la deportazione.
-Signor Luigi Settembrini?- Mi fa lui in un italiano duro quanto sguarnito di accenti. Mi riprendo, mi scuoto e metto finalmente in chiaro la figura alta e segaligna che mi sta di fronte. Un monaco.
-Si, sono Settembrini. E, voi, chi siete?- Nel dirlo sposto la lucerna che brucia nell’acre odore di olio e do luce al suo volto. Segnato da profondissime rughe si rivela un sorriso quasi amaro, doloroso, da vecchio assai stanco.
-Sono Edward ‘O Grady, fratello della padrona ed un meraviglioso caso sta intrecciando le nostre vite, questa notte.- Solo ora m’avvedo che il suo dire è agitato quanto accorato. Pur reso avveduto dai dolorosi tradimenti che la vita mi aveva fin lì riservato, mi dispongo ad ascoltare. Così, il monaco prosegue:
-Si! Un meraviglioso caso che voi abbiate scelto The Cove per la vostra ultima notte irlandese. Un portentoso caso che io, Edward ‘O Grady, sia giunto dal continente a pochi giorni dal vostro travagliato approdo su queste coste, grazie all’impresa del vostro figliolo…
– Come conoscete questi accidenti?- Mi irrito e mi appronto a ricusare ogni altra intrusione nelle mie traversie.
– Non vi dovete turbare, Signor Settembrini, noi irlandesi avversiamo i tiranni quanto e più di voi ed amiamo la libertà e la cara patria e siamo pronti al supremo sacrificio, come pure voi ne eravate pronto.
– Come siete addivenuto sì facilmente addentro alla mia storia, Signor O Grady? Io non profferii parola, qui, alla locanda.
– Ho soggiornato a lungo nella vostra amata Italia, tanto a lungo da cogliere la fama che nella vostra terra avete saputo guadagnarvi. Vi vissi dieci anni della mia esistenza e vi presi i voti da benedettino nell’abbazia di Monte Cassino nell’anno 1848, quando già, per le campagne, si vedevano passare gli eserciti al servizio dell’oppressore e si diceva della Costituzione e di un dotto che prometteva di debellare il mostro dell’ignoranza…Voi, Luigi! –
Ripresomi dallo sgomento e confortato dal naturale moto d’orgoglio, affronto, deciso il frate:
-Voi parlate da laico, fratello Edward, io ho conosciuto innumerevoli preti e frati e di rado, se non mai, li ho sorpresi ad accendersi di spirito repubblicano e libertario; m’apparite quale un religioso assai inconsueto…
Su queste mie parole lo vedo come rasserenarsi ed acquisire un inatteso vigore, una giovanezza, dispersa o raggomitolata in un cantuccio del suo animo fiero, prende corpo sul suo volto che d’un subito si fa ilare e disteso.
-Noi cattolici irlandesi diamo,obbedienti, a Roma il regno della nostra confessione, ma per la nostra terra, per il governo delle nostre genti celtiche, non riconosciamo altro sogno che la libertà repubblicana-
Ammirato da una tanto risoluta gioia civile, mi dispongo, non più difensivo,ad accogliere, amichevole e fraterno, le confidenze che il monaco freme d’offrirmi…e m’apro fiducioso:
-A che, dunque, dare del meraviglioso caso a questo nostro incontro?-
-Avete, con voi-mi dice con accento grave- il vostro amato Luciano? Dico i testi e, naturalmente, la vostra preziosa traduzione?-
Il pulsare del mio cuore si fa, in un istante, frenetico. Cerco d’istinto con gli occhi vie di fuga, guardo la distanza che mi separa dall’uscio d’ingresso e la rampa di scale che da verso le camere della locanda. Penso a mio figlio che ancora è fuori per sistemare gli affari della nostra imminente partenza e, per un attimo, mi sento perduto.
– Chi vi manda? Di chi siete al soldo?- Chiedo, pronto anche a battermi e, per dimostrarlo, picchio con impeto il pugno sul tavolo, rovesciando la preziosa birra irlandese. Lo spreco del nettare caro ai Celti e il frastuono provocato m’attirano sguardi e brusii di disapprovazione dagli sparuti avventori del The Cove.
– Sapevo che avreste reagito con apprensione a questo mio cenno alla vostra opera, ma non abbiate timore,v’ho già dato modo di intendere che non provo, certo, benevolenza per quelli che furono i vostri carcerieri.
-Eppure- incalzo – solo loro ed una assai ristretta cerchia di sodali sanno della mia fatica in carcere.-
-E questo è il punto, Luigi, perdonatemi se ormai mi concedo di chiamarvi così. Questo è il punto. Fu nell’anno del Signore 1850, un anno dopo la vostra carcerazione a Santo Stefano, che a firma di uno dei vostri sodali, appunto, tal Benedetto………,giunge al priore dell’Abbazia presso la quale io compiva il mio ufficio di frate, una missiva nella quale si chiede notizia di un manoscritto latino de I dialoghi conservato presso la Biblioteca Vaticana. Ora, Luigi, Il buon padre era a conoscenza delle mie continue frequentazioni in quella biblioteca, onde affinare i miei studi classici che aveva intrapreso fin da giovanetto qui a Dublino presso un sant’uomo ,un abate di nome Shannon, che sosteneva ch’io possedessi un gran talento per le lettere…ma vi vedo impaziente…ebbene verrò al punto-
-Ma no! Ma no!-Tento di interloquire- raccontate pure per intero la vostra istoria-
– Non abbiamo tanto tempo, Luigi, il vostro figliolo Raffaele avrà approntato di certo la nave che domani vi porterà a Londra e, dunque, ci resta solo questa notte a che io possa mostrarvi quel che ho da mostrarvi e voi possiate portare a compimento la nobile impresa che chiedo al vostro ingegno…-
Una vertigine d’agitazione e d’ansia mi prende e scruto il monaco che adesso, lo veggo assai bene, ha fatto gl’occhi da furetto. M’avvedo della mia bocca spalancata dallo sguardo compiaciuto del mio strano visitatore, lo sguardo di uno che s’attende proprio quella reazione…Non mi resta che prendere in mano il gioco, per dignità, almeno. M’ero lasciato portare a ballo per troppa pezza…
-Al dunque! Frate, il priore vi affida la missione alla Vaticana, voi la portate a compimento, l’ho avuta, infatti la copia, suppongo da voi trascritta,de il Latino de I Dialoghi , ed oggi, questa sera, m’è data l’opportunità di dirvi il mio grazie; ciò spiega a iosa le notizie che possedete sul conto del mio Luciano…e certo è questa una ben fortunata coincidenza che mi onora e che mi dà , lo ripeto, la possibilità di incontrare uno dei miei benefattori…in quanto all’impresa che mi chiedete, temo che il ritorno, a breve, del mio amato Raffaele mi costringerà a sistemare in gran fretta le mie cose e ad apprestarmi alla partenza, e pertanto, mio buon amico…
-Alla Vaticana non rinvenni solo il Latino de I Dialoghi, bensì pur anche un originale greco che un amico Gesuita, di cui non posso farvi il nome, avea preservato, sottraendola alla cura dei suoi superiori, perché s’era fatta la convinzione che l’avrebbero sottratto al mondo e alla sana curiosità degli studiosi…
– Un originale greco di chi?-
-Ma del nostro amato scrittore di Samosata, naturalmente!-
-Bubbole! Fratello Eduardo, bubbole! E poi, nel 1850 Luciano era ben noto agli studiosi e non v’era cagione alcuna di nasconderne un originale!-
-E’ che, mio buon Luigi, questo originale non appartiene alla produzione nota di Luciano, o, meglio, s’affianca alla produzione nota, ma è come se la sconvolgesse integrandola…insomma, un sogno, una visione, una profezia!-
-Ecco, lo sapeva bene io! Questo gesuita vi tirò un bello scherzo, gabbandovi, magari un Luciano cristiano-
-Vi sbagliate, Luigi, il gesuita sapeva bene che quel testo che m’affidava non avea nulla a che fare con nostro Signore…perché, è tempo che ve lo sveli, trattasi dei libri III e IV de –
-Ma Luciano non li ha mai scritti quei libri! La sospensione del racconto fa parte del suo gioco…-
-E’ quel ch’io dissi al mio amico gesuita finché non fui davanti alle pergamene laboriosamente ripiegate più fiate a formare i sedicesimi e scritte in recto e verso sul pelo e sulla carne. Potemmo metterle a confronto con alcuni rari autografi e so bene io come mi tremavano le mani e le ginocchia nel vedere corrispondenze e ripetizioni di grafia di immancabile e dura evidenza.-
-Amate Luciano fino a ripeterne le fascinose menzogne, mio buon frate, e seguiterei questo giuoco d’invenzione letteraria se non cascassi dal sonno…chi sa? Un giorno potremo rincontrarci a riprendere a fantasticare del nostro autore, dei suoi nuovi libri Delle Verità. A momenti Raffaele farà rientro e potrebbe rimproverare suo padre d’aver vegliato troppo a lungo…-
-Dovrà accettare che suo padre vegli l’intera notte perché solo questa gli è data per vedere, toccare e tradurre nel suo bel idioma il Luciano ritrovato-
-Voi siete un gran matto, frate Eduardo!-
Qui le note di Settembrini presentano un interruzione. I fogli del piccolo quaderno nero (che di un piccolo quaderno nero si tratta), recano segni di indecifrabili cancellature. Qui e lì s’intravedono talune parole e frasi sparse, come “la mia imprudenza è pari alla mia sfrenata curiosità”; o, ancora: “sull’incedere del monaco, in questa incredibile notte irlandese, io mi chieggo …” …; più avanti : “ Il pensiero di Raffaele e del suo timor panico d’avermi ancora una volta perduto”. Quel che si intende è che frate Edward dovette aver convinto il Settembrini a seguirlo in un qualche altro luogo lontano dalla locanda, forse un capanno, o una piccola abitazione in legno non lontano dal mare e ciò si evince da taluni passaggi delle pagine successive, dove il racconto riprende fluido:
–Tenete discosta la lucerna, ché la carta pergamena può subirne danno- m’intima il frate premuroso-
-So ben io quel che mi faccio, Eduardo, non è certo il primo di questi gioielli che mi viene tra le mani!-
In quel piccolo, povero ambiente dove non v’è altro che un tavolaccio di pino vecchio e una branda, veggo ora a me dinanzi l’opera di quel diavolo di un Prometeo. Per antico fiuto, che solo noi filologi abbiamo, intuisco subito che il frate non ha mentito. La carta pergamena non è falsificata ed i tracciati delle lettere greche sono assai simili,anzi identici a quelli che m’era, per fortuna e ingegno, capitato di vedere. La cura della rilegatura mi pare assai più tarda, fattura da XIII secolo, simile a certe opere d’ingegno libraio care ai maestri di Tivoli e non manco di rilevarlo all’attenzione del monaco.
-I miei fratelli benedettini, in Santa Maria Maggiore, aveano l’uso di preservare i quaterniores più antichi con la pelle conciata in grado di proteggerli dall’umido e dai repentini cambi del tempo…-
-Dunque anche voi pensate che provenga dal monastero di Tivoli?- Nel dirlo prendo, amorevole, tra le mani il prezioso libro e lo rigiro delicato, come volessi io che mi vibrasse ancora della mano del suo fabbro…
-Anch’io vorrei che mi parlasse- mi fa Eduardo con un blando sospiro- ma m’è d’uopo rammentarvi che non ci resta che questa notte per la traduzione e…
-Potrei pur ben rimandare la partenza!- interloquisco spazientito…
-Non io, Luigi, non io. Quel buon gesuita, che mi pregò di tenerlo, ora me ne chiede l’immediata restituzione, mi dice, in una missiva che proprio ieri mi giunse, a pena della sua vita! E già m’apprestava, dolorosamente, ad anticipare il mio ritorno a Roma, quando è avvenuto il miracolo del nostro incontro…
-L’ immediata restituzione, per che farne?
– L’avete bene inteso: il libro ha da sparire.
-Potevate copiarlo.
– E lasciare in giro per il mondo la prova che condannava, tradendone la fiducia, un buon amico? No! Ne pur anche il nostro amato Luciano potea spingermi a tanto…
– E dunque, allora? A ché lasciare a me questo fardello?
-Perché so che voi, Luigi, da onesto patriota e letterato mi darete solenne parola di tenere da conto il quaderno su cui, frenetico, già state scrivendo e su cui riporterete l’opera. Farete in modo che esso sia ritrovato in un tempo a venire, un tempo forse più pronto a ricevere il fuoco profetico che queste Storie Vere serbano.
-E se me lo ritrovassero indosso?
-Direte che è opera del vostro ingegno scherzoso, che avete voluto fingere un Luciano, come avete già finto un Aristide di Megara.
-Pur anche questo sapete?
-Molto cercai di voi e molti incontrai che v’avevano conosciuto e non di meno arretrai dall’interrogare taluni vostri compagni di cella.
Arrossisco di rabbia e sconcerto per il mio pudore intimo violato, e il moto incontrollato di questo sentimento si legge patente nel mio volto, nel mio sguardo.
– Non so null’ altro che di un quadernetto e di un titolo assai affascinante, I Neoplatonici mi pare…-
– Quel quadernetto è andato perduto!
– Capisco…, ma è tempo che mi diate la vostra parola, com’io v’ho or ora dimandato.
Messo sì duramente alle strette, giuro e prometto al frate quanto mi ha chiesto e m’accingo a compiere l’impresa, quando, nell’aprire il recto del tabulato I, un improvviso colpo di vento spalanca una finestrella che affaccia verso la spiaggia, lasciando penetrare in questo strano capanno il mugghio del mare. La lucerna si spenge e le antiche carte prendono a vibrare. Non foss’io un loico ed un laico convinto, lo prenderei quale un presagio, un segno d’oscura accoglienza nelle visioni nove di Luciano.
– Proteggete il manoscritto, Luigi!- Mi fa il frate mentre corre a chiudere l’importuna finestra e provvede a riaccendere la lucerna .-Perdonate il disagio per questo luogo inusuale, ma esso è l’unico refugio che ci scampi dal manifesto accorger de le genti- mi dice in una improvvida citazione petrarchesca che richiama inevitabile un mio sguardo in tralice. Mi prende, a questo punto, una sorta di timor panico, una sgradevole sensazione d’esser straniero a quel luogo, a quell’ uomo. Sono pronto ad abbandonare questa assurda contingenza nella quale mi son impegolato, quando le lettere rosso fuoco, quasi carmiglio, che segnano la titolatura del foglio uno recto, mi riconducono, d’un colpo nel vortice che m’aveva spinto sino a quel punto.
-Silenzio, ora!- Urlo quasi in farsetto- E sia!-
Traduco, traduco, traduco ed il rammarico di non aver tempo né modo di riportare almeno frammenti dell’originale, è vinto dall’incredibile materia dei nuovi libri di Luciano…
Qui, il quaderno reca un foglio pieno zeppo di tentativi di trascrizione evidentemente riferiti alle dimensioni e a una più accurata descrizione del manoscritto, ma appaiono delle cancellature così fitte da impedire di leggervi al di sotto; a tratti si intravedono parole sparse quali palinsesto, o rilegatura bizzarra, tentativi di misurazione con l’indicazione mm di subito seguita da uno scarabocchio veloce. Insomma resta evidente che fratello O’ Grady deve aver proibito ogni precisa descrizione filologica dell’oggetto. Poi dopo un intervallo d’un altro foglio bianco…
Continua… Seguici nelle terza puntata…