Del fulgore di Calipso non sono più degno
se alla fine
ho poggiato il culo stanco nel mio vecchio regno.
L’isola immemore mi proponeva immortale
dentro un amore magico eppur reale…
Ma seppe Penelope tessere sua tela,
quale un ragno paziente
che un freddo talamo ora svela…
Ed ora che mi punge vecchiezza scorticata
di quell’isola d’altrove, Ogigia amata,
rimpiango il fiore di mia erranza abbandonata.
Perché mai l’umano affida a un disperato legno
il ritorno a un consueto e ripetere di vita disegno?
Ed ora del panico
d’una felicità promessa pago lo sdegno…
Oh ninfa che mi rapisti sul promontorio felice,
in antri osceni c’ora la memoria benedice
ricordati di me e non del mio abbandono truce
concedi…
al mio canto di inviarti l’ultimo sospiro di luce.