Per archivi di memoria pubblico un intervista di Giuliana Gargiulo a me in occasione della chiusura di Estate a Napoli con il mio testo “Li farfalle de ghiaccio”

Ho sempre sentito il mio teatro come un’esperienza d’assenza. Una soglia d’accesso a corpi prossimi ad una consistenza provvisoria. Sarà il senso del sacro, quel rituale che condensa anime evocate fin dalla notte dei tempi. Sarà per questo che i dialoghi son solo superficie di altre densità nascoste, singulti spezzati sull’ abisso di un prossimo svanire. Chiedo sempre agli attori di negarsi, di produrre toni tra il sussurro e l’urlo spezzato…già nel reale c’è troppo parlare spento…in teatro il suono s’articola come un ché di deviato, deformato…quasi un’eco d’altrove. per questo forse spesso cerco di invadere per la scena luoghi desueti…territori di macerie e d’abbandono più che sfarzosi teatri e comode poltrone…sarà l’ossessione del viaggio, stanze di un poema sempre in cantiere dove ciò che si sente e si vede si sa che può in un istante svanire. Ombre, si, ombre…lemuri… Chi ha visto le cose che ho proposto in archivio un’idea può farsela…è come se invitassi l’astante a cercare tra le ombre il suo doppio…quasi un richiamo a farsi assorbire nello spazio/tempo prodotto dalle presenze e dai suoni (vedi “Il teatro sommerso” o ancora “Viaggio nelle viscere” o il notturno magico di “Un sogno bruscamente interrotto” o, da ultimo e recente l’esperienza di “Benevento città teatro” o, ancora “Il pozzo di sangue” che attraversò cortili di conventi e masserie dei luoghi sacri del Nolano). Il mio teatro cerca l’indistinzione tra l’attante e l’astante (vedi qui la categoria “Il cerchio di fuoco”) voglio che sia per tutti una porta per l’altrove in continua frizione con il mondo accanto, una metonimia del tempo/spazio, una chiave, un punto d’accesso. In questo la musica ha un ruolo non irrilevante, come da ultimo (vedi “Li farfalle de ghiaccio” o l’operina in cantiere “Anime anfibie”) la strutturazione in versi del parlato…un ritmo del dire che impedisce l’assuefazione al quotidiano fornendo all’attore e allo spettatore la via per “un altro da sé” un dire che tende al collettivo più che all’intimo di un personaggio immerso nella mimesi di una realtà possibile e simile alla nostra. Comincio a parlarne qui e vi tornerò in altri passaggi se da voi stimolato.
Per “archivi di memoria” oggi pubblico una pagina de L’Unità” dove insiste una recensione di Aggeo Savioli sullo spettacolo “La favola di Orfeo”… un operazione drammaturgica di contaminazione tra linguaggi alti e bassi… il sottotitolo recitava, infatti, “Ovvero Pulcinella all’inferno”…
Penso e mi immergo
nell’infinitesimo corpo
d’ogni goccia di rugiada:
ogni fiocco di neve
è cristallo di voce
che sferza e urla nel vento.
Li vedo ecco!
Corpi d’anima in ghiaccio,
cristalli in trasparenza
precipitato fluido d’esistenza.
Vi penso, ecco,
creature di natura:
mutazioni
in luccicchio di luce,
quale materia precaria;
anime esposte al vento
disposte, si, ad evaporare
ad altre vite
del nuovo Sole in avvento.
Danzate bianche creature,
voci del vento,
di me prendete il sopravvento.
Accarezzatemi,
nello stridio del canto,
ogni lacrima di pianto.
Dico a voi:
se la colpa m’increspa il sorriso
di sbaragliarla
di nuova luce nel viso.
Miezo o’ ggrano
se germoglia ‘a vita nova:
chella cca te dà o’ ppane
friabile e gustoso;
‘a spiga diritta e bionda
ca se pasce a o’ sole
e se fa cogliere
quanne se fa matura.
Mo’ dinto a stu vierno
s’arreteraje madre natura,
dinto a stu vierno
de menzogne senza cura.
E se rummane accussì:
affamati de luce…
e nun c’è sta’ grano,
nun ce sta spiga:
sulo ‘a tempesta
e’ chesta guerra antica.
Gloria! Gloria! Gloria!
Arrevotate acqua da cima a funno!
Gloria! Gloria! Gloria!
Fatte tempesta , oi mare, de vita novella!
Gloria Gloria! Gloria!
‘O sotto se fa’ ‘ncoppe e fa nova la terra!
Gloria! Gloria! Gloria!
Da che ereme afflitte mo simme anime de guerra!
Gloria! Gloria! Gloria!
Ma nun v’accidimme no! Ve trasimme ‘mpietto,
simme anime anfibie no anime a dispietto!
Gloria! Gloria! Gloria!
Fatte ciummo viento putente
fatte ciumme da oriente a occidente
nuje simme addeventate na pioggia vivente.
Gloria! Gloria! Gloria!
Nu turbine! Nu turbine! Nu turbine!
Ve’ purtamme ‘ncielo e po’ ccu nuje in abisso!
Gloria! Gloria! Gloria!
E po’ surgimme dall’acqua benedetta,
popolo nuovo de salsedine sangue e de via retta!
Gloria! Gloria! Gloria!
Venite a nnuje! Aunimmece! A uno a uno senza fretta!
Il corale è incalzante a ritmo sempre più elevato tra percussioni voci e fiati. Immagini di danza e mare in turbine azzurro e nero avvolgeranno attanti e astanti… poi, di colpo silenzio solo il sibilo dolce di un flauto e di un violino… tutti si pongono lievi come onde in cerchio avvolgendo l’intera assemblea e sussurrano :
Mo sì ca simme fatte UNO! UNO de mare e de terra…
Terra battezzata! Mo’ si ca se so aperte e’ porte!
Trasimme…trasite…’a terra e l’acqua so una cosa vedite!
Gloria! Gloria! Gloria!
Pubblico, oggi, in “Archivi di memoria” gli atti del seminario che si è tenuto alla scuola/laboratorio di teatro Di Luca Ronconi a Santa Cristina (Gubbio) il 10 settembre del 2011. Con Roberta Carlotto c’erano, oltre me, Luca Ronconi, Giuliano Vasilicò, Roberto Tessari ed in spirito, continuamente evocato, Carmelo Bene. La tessitura del dibattere si è svolta intorno al mio libro Teatri/libro. Esperienze di percezione tra corpi in pagina e corpi in scena. Ronconi, Vasilicò, Bene.
Buona lettura
10 settembre 2011.
Roberta Carlotto
Ne avevamo parlato tra noi visto che c’era questa presentazione oggi. Fa piacere che alla scuola dove stiamo lavorando tutti ci sia la presentazione di questo libro che, avete visto lì, avevamo messo a disposizione, ma che soprattutto ci da la possibilità di avere il professor Massarese che è qui con noi, che lo ha scritto; Vasilicò che è un grande maestro che io ho il piacere di conoscere da tanti anni perché abbiamo un po’ le età piu simili, credo, anche, adesso voi lo conoscete meno in questi anni, e che negli anni ’70 ha cominciato con delle cose molto importanti che poi vi racconteranno in modo migliore e che io ero giovane e l’ho visto con molto piacere seguendolo per molti anni; per Carmelo Bene credo non ci sia di che dire perché immagino che avete vuto modo di conoscerlo, di studiarlo in vari modi. Del maestro Ronconi che dire? Anche se il maestro Ronconi qui è presente con noi da tanto tempo. Però c’è una cosa particolare che questo libro toccando personaggi così diversi e cosi, ognuno di loro, così unici, ha invece un tema ben preciso che è stato affrontato dal professor Massarese che analizza in modo particolare il rapporto con il libro in quanto tale, con la letteratura, ma non è la letteratura, il rapporto tra letteratura e libro, ma non spetta a me dirlo, raccontare questo, bensì proprio il modo in cui il punto di vista di volta in volta è proprio quello del lettore, in qualche modo; e su questo, soprattutto, con tutti e tre è stato fatto un lavoro molto differenziato che poi alla fine ci da anche una chiave molto interessante sul nostro Novecento non solo teatrale, proprio sulla capacità che hanno avuto in modo diverso queste persone, anche altri, ma in questo caso…, di affrontare la rottura di tutti gli schemi da un punto di vista dell’io che si rompe e che si può leggere da più punti di vista, e sul quale poi attraverso citazioni molto molto interessanti sul libro avrete modo di vederlo. In modo particolare credo che il professor Tessari, che è qui, a cui passo rapidamente la parola, adesso ci da una chiave ancora più netta, piu precisa di questo libro, abbastanza particolare. Grazie.
Roberto Tessari
Innanzitutto un saluto a tutti. Il libro di Massarese, come è stato detto è innanzitutto un’analisi centrata con molta precisione su una parte della produzione di Ronconi, di Bene e, direi, su tutta la produzione di Vasilicò. Si tratta di una scelta, per quanto riguarda soprattutto l’attività di Ronconi e Bene, che trova il suo criterio specialistico proprio in quello che è il titolo del libro stesso, Teatri/libro, cioè un territorio, per cosi dire, di confine che certamente nei casi che vengono presi in esame riguarda per lo più il passaggio da opere che sono esistite, sono nate (ed è importante il concetto di rinascita proprio per l’interpretazione che darà Massarese di queste performance), diciamo che sono nate o come poema o come romanzo e hanno avuto… difficile qui trovare un termine per definire, perché parlare di una trasposizione scenica, a mio avviso, già risulterebbe deviante, piu che deviante, sarebbe addirittura una sceneggiatura, o una drammatizzazione; direi che qui per definire qual’è stato il criterio bisogna rifarsi immediatamente a quella che è l’idea centrale del libro che ci parla, diciamo, di un portare con linguaggio teatrale lo spettatore a una visione di quello che è stato il processo genetico che ha messo in vita queste opere, che sia l’Orlando furioso che sia Le 120 giornate di Sodoma, che sia l’opera di Proust, che sia il Pinocchio di Carmelo Bene, a questo punto importa molto perché si tratta di operazioni differenti, ma si radunano in questo comune denominatore, questa sbarra, diciamo, che unisce e separa la parola libro e la parola teatro. Ho parlato subito di quella che è un po’ una delle linee guida del testo, cioè l’individuare lo specifico che unisce queste operazioni pur nelle loro diversità in un’operazione che in realtà travalica i codici, tanto del teatro inteso nel senso convenzionale del termine, quanto ovviamente dell’opera che viene presa in esame, e ci riporta a un plesso differente, che è il plesso della genesi dell’opera stessa, il travaglio creativo da cui l’opera è nata, l’atto creativo, perché questo costituisce in realtà il punto comune nelle esperienze che vengono prese in esame, ma costituisce anche la chiave per la quale… (e credo qui si possa parlare di uno dei pochi libri di teatro utilmente scritti negli ultimi tempi), la chiave di una rimessa in discussione di tutte le componenti del fattore teatro, componenti che vanno dalla definizione dello spazio, e del tempo a teatro (e qui abbiamo un maestro di queste esperienze [si riferisce a Ronconi]) e che riguardano un altro tema che unifica un po’ tutto e che è la percezione; non si parla qui genericamente di sperimentalismo teatrale, ma direi si parla di opere che hanno lasciato il segno perché hanno aperto discorsi nuovi nel campo della percezione del fatto teatrale; e qui si diparte tutta una serie di problematiche che io mi limiterò soltanto a denunciare perché si tratta poi di discuterle, si può parlarne ma sono tematiche capitali della situazione; se oggi il teatro si trova in una condizione per lo meno molto problematica, proprio soffermarsi sulle questioni che Massarese ci ripone davanti agli occhi passando attraverso esperienze concrete, tutti gli spettacoli che vengono analizzati, noi ci ritrova anche perché, in realtà, non si è fatto fino in fondo, non si è proseguito il dibattito, non si è proseguito il discorso che bisognava fare per fare i conti con questa realtà, con queste realtà in trasformazione. Parliamo innanzitutto di un teatro dove, ad esempio, crollano tutti quelli che erano gli elementi base, classici, della convenzione teatrale, a partire dal personaggio, che in tutte le opere che qui vengono analizzate e nelle esperienze di cui qui abbiamo due maestri, in realtà ci si presenta in una configurazione assolutamente nuova: non è piu il personaggio verosimile, il personaggio che cerca di rispecchiare, di mimare, diciamo, il nostro io o un io più o meno scelto tra quelli della società, ma è un personaggio che si definisce come figura, potremmo dire, e come figura che nasce da una serie di interrelazioni. Quindi quando noi leggiamo già un’endiadi come teatro/libro, l’endiadi entra in azione nel momento in cui…, e diventa concreta, diventa scelta operativa, nel momento in cui noi abbiamo un certo modo di presentare il personaggio. Che ne so.., il personaggio del Pasticciaccio di Gadda che si esprime esattamente come nella scrittura di Gadda, in terza persona, qui siamo davanti, direi, cito l’esempio perché può essere l’esempio più clamoroso, di crollo assoluto della concezione convenzionale del personaggio, eppure vi è una proposizione di un’entità che ha una nuova vitalità, una nuova efficacia e un nuovo modo anche di rapportarsi al pubblico; certamente è un modo che mette in crisi quelli che sono i parametri di ricezione tradizionale, ma nel contempo offre la possibilità di entrare in una nuova modalità di ricezione, in una modalità che ad esempio Ronconi aveva definito la modalità di superare la posizione dello spettatore che si pone come contemplatore di un evento per parlare, invece, di un’esperienza del vissuto, naturalmente da interpretarsi in una maniera ben particolare. Prima ancora del personaggio, in un certo senso, la scelta di operazioni nelle quali se un testo entra a teatro non è piu un testo drammaturgico, cioè un testo fondato sul dialogo intersoggettivo, ma è un testo che parte da quello che è il racconto, racconto in versi, racconto in prosa, racconto in una lingua inventata, com’è la lingua di Gadda, per esempio, o in altri tipi di lingue, noi ci troveremo anche qui di fronte a una scelta che prospetta una questione essenziale per il nostro tempo, ed è la questione che il famoso libro di Szondi, Teoria del libr.. del dramma moderno -non a caso mi viene da dire libro, oramai l’interscambiabilità dei termini un po’ dilaga- ci ha consegnato dandoci un indicazione preziosa, facendoci sentire, soprattutto, un fatto importantissimo: che la nostra identificazione tra il dialogato e il teatro è in realta semplicemente una contingenza storica, è un momento delle civiltà teatrali che si sono succedute, il teatro in Occidente e anche in Oriente non è nato certo con l’idea di portare sulla scena soggetti che dialogano tra di loro e, tantomeno, se non solo a livello apparente nelle nostre tradizioni moderne si può parlare di dialogo intersoggettivo per esempi quali quelli della tragedia greca o del teatro No giapponese. Anche qui siamo davanti a una questione che credo non è soltanto la registrazione di una grande stagione in parte compiuta, in parte ancora in atto alimentata in Italia da alcune grandi personalità di cui nel libro vengono prese giustamente in esame dei campioni esemplari, ma è piuttosto una questione decisiva per quello che si può e si deve provare ancora a fare oggi a teatro nella costruzione di un evento teatrale e nel lavoro, nel rapporto che la creatività teatrale deve avere con la parola scritta. Parlavo prima, ancora, dello spazio e del tempo; questi esempi di teatro, pur nella loro grande varietà, ripeto, perché non si tratta certo di omologare né la linea di sviluppo di un’esperienza come quella di Vasilicò, né la linea di sviluppo di tutto Carmelo Bene o una parte di Carmelo Bene, giustamente viene preso in esame un esempio capitale dell’esperienza di Carmelo e cioè il Pinocchio come libro/teatro per eccellenza, oppure una parte importante dell’attività di Ronconi. Si tratta, in realtà, di fare i conti con un’esperienza che non è consegnata al tempo e non è un’esperienza affidata soltanto alla biografia di alcuni grandi. È in realtà una questione con la quale occorre confrontarsi a mio avviso ancora oggi, è una questione che ci impone di praticare dei sentieri, e l’esempio che è strato offerto e che è ancora offerto da queste grandi personalità è in realtà proprio la pratica, la continua pratica di questi sentieri. Si tratta, in sostanza, di pensare forse fondamentalmente come mai la recezione di un pubblico normale, diciamolo pure violentemente, oggi è un puro miraggio. Poi se oggi dobbiamo dire che manca qualcosa a teatro, è stato sottolineato da Ronconi, già da Longhi, ciò che manca fondamentalmente è un pubblico, e siamo ben consapevoli di ciò che significa la parola pubblico; noi non parliamo certamente di una raccolta a caso di presenti a uno spettacolo ma parliamo di una collettività che in qualche modo ha delle attese, recepisce in un certo modo, si conoscono per lo meno quali sono gli ondeggiamenti, le linee d’onda dentro cui si muovono le sue attese, le sue possibilità di ricezione possiede in un certo senso , forse la parola piu giusta parlandone solo in termini antropologici, una qualche cultura del fatto teatrale; noi oggi possiamo avere delle persone presenti a uno spettacolo ma non abbiamo certamente un pubblico, non abbiamo un pubblico e non è che ce lo possiamo certamente inventare o creare dal nulla, l’unico modo in cui si puo rispondere a questo grande punto interrogativo è quello di proporre condizioni di ricezione dello spettacolo che stimolino coloro che sono presenti al fatto teatrale in qualche direzione ben studiato, ovvero che si operi prp su quelle che sn le tecniche espressive in rapporto alla capacità di ricezione che queste tecniche possono avere nel pubblico stesso; il che significa allora, secondo massarese soprattutto per questo indica una linea ben precisa, uscire da quella che era l’abitudine di avere una platea di persone che partecipano semplicemente nel senso di assistere a qualcosa e creare invece una sorta di reazione parallela, non diciamo certo uguale, ma parallela a quella che puo avere il lettore di un libro, parallela a livello della mobilità, a livello anche della frammentarietà, se vogliamo, di ricezione, con cui ognuno di noi si rapporta a un libro; il gioco delle riprese, lo spostamento, ad esempio, dello spettatore, che avviene, a partire in maniera esemplare, dall’orlando furioso, la sua scelta tra momenti dell’evento in contemporanea, dislocati, e qui avviene già il mutamento dello spazio e del tempo, delle forme di ricezione, in punti differenti, l’invitare lo spettatore a reagire con una curiosità, con una libera scelta, a un certo punto, è una delle strade che certamente danno ragione all’indicazione di massarese, forse piu simile al modo in cui ognuno di noi legge pagine amate sospendendo a letttura, riprendendola, ritornando a fissare un punto; e questo collima anche con un’idea concreta del vissuto, dello spettatore quindi che reagisce come vojeur, assiste a uno spettacolonel senso piu deteriore o esteriore del termine, ma come uno spettatore, come un individuo che percorre una sua esperienza; parla massarese nel suo libro di un esperienza simile a quella che si ha anche nel sogno, un esperienza in un certo senso onirica, un esperienza in ogni caso che metta in moto meccanismi quali riportano un po forse in circolazione delle entità che dobbiamo alludere con parole anche forse antiche, parole come visione anziché, diciamo, presenza ad uno spettacolo, parole anche che riguardano poi il concetto di libro, non soltanto il concetto della fruizione ma anche il concetto di libro perche non a caso io credo in almeno due punti dell’opera pur continuando a parlare sempre di quest’immagine e di questa realtà, soprattutto del libro, massarese si lascia sfuggire, si lascia scivolare volutamente la parola mito, mito nel senso poi di parola originaria da cui deriva tutta quella evoluzione grazie alle tecnologie dell’uomo e grazie alla scrittura di un certo tipo porta a al concetto di libro, ma che in realtà è qualcosa che non sta solo nel nostro concetto di libro, come non sta neanche solo dentro al concetto di poema o di romanzo e cioè un tipo di affabulazione capace di essere puntata al suscitamento di visioni, e se parliamo di termini come visioni entra qui, oltre che sul concetto di fare i conti con il personaggio, entra qui ingioco anche una necessità dei nuovi compiti che si pongono ad un attore. Un attore che reciti ad es citando un testo in terza persona compie in realtà un operazione completamente nuova da un certo punto di vista, vecchissima, se vogliamo, da un altro punto, ma in ogni caso crea davanti a noi una sfasatura rispetto a quelle che sono le abitudini di ricezione di un pubblico costretto a misura convenzionale, una sfasatura che in un certo senso, giustamente questo è un altro grosso tema, che il libro affronta richiama anche certi concetti della fisica moderna, nn soltanto perche viene analizzatto tra gli altri eventi presi in considerazione anche uno spettacolo come infinities di ronconi dove la scienza diventa non soltanto quello che è, io credo, in tutti gli spettacoli di ronconi, cioè un termine strutturale con cui confrontarsi, ma diventa tematica, fa parte dell’enunciato, è il libro a un certo punto che viene inscenato, ma perche evidentemente il concetto, ad esempio, di un personaggio che non si identifichi piu con la mimesi di un individuo ci porta davanti a un’indeterminazione, e soprattutto a tecniche artistiche che sembrano ripetere il gioco che è presente nelle teorie scientifiche dell’indeterminazione o forse costituisce il riflesso, al riflessione anche a livello estetico di quello che è un concetto che a livello scientifico si è posto con la forza della sua necessità matematica, con la sua capacità di costituire uno dei modelli potenziali. Proprio il capitolo che viene aperto dall’accostamento con la scienza piu aggiornata ci pone forse davanti a tutta una serie di fattori che costituiscono un vero e proprio territorio ancora in parte vergine da esplorare, da un lato questi concetti riassumo in maniera esatta cio cheè avvenuto nell’ambito delle esperienze qui prese in considerazione, ma dall’altro riaprono anche qui tutta una rete di discorsi, ci pongono cioè la necessità di confrontarci facendo teatro con gli interrogativi base che troppo spesso, non a caso nel libro vengono anche contenute note polemiche nei confronti di quella che è una certa scelta di produzione oggi dominante dove la parola dove la parola produzione diventa veramente nel senso industriale del termine l’unica guida di una scelta culturale nell’ambito del fare teatro e così via… In realtà le cose su cui occorre interrogarsi sono le essenze stesse del fare teatro, che cosa significhi fare oggi l’attore, che cosa significhi trovarsi in una condizione in cui non è piu proponibile la ripetizione di un soggetto umano che è stato in tutti i modi demolito, è vero ancora soltanto piu a livello convenzionale ma è caduto in tutte le certezze e in tutte le possibilità di analisi sviluppate da tutte le scienze e da tutte le forme culturali dell’uomo attuale; interrogarsi su cosa sia il teatro stesso, parlare di indeterminazione forse è molto opportuno a proposito del teatro in se e per se, in quanto credo sia ancora da definire e oggi forse è un po’ urgente, il fatto se il teatro sia in realtà un arte convenzionalmente concepita, se possa tranquillamente essere messa sullo stesso piano della pittura, della scultura, sempre considerando pure queste in un accezione che del resto non vale neanche piu per i loro sviluppi attuali; io vedo che in realtà nella storia abbiamo dato due risposte fino a questo punto, abbiamo detto che il teatro è un arte cm tutte le altre, magari noi stessi all’università abbiamo dovuto batterci perché rifiutavano di considerare il teatro un attività artistica umana di livello apprezzabile o anche solo minimamente decente almeno fino a 30-40 anni fa, però poi bisogna chiedersi veramente se poi a livello operativo equiparare il teatro alle altre arti oppure tentare la soluzione, diciamo, del teatro come sintesi suprema di tutte le arti, haegelianamente parlando, se è qualcosa che è utile per il nostro campo. Io credo che in realtà il teatro non sia un arte, il teatro è un meraviglioso territorio di confine, e penso che già proprio il titolo del libro di massarese segnando il suo riferimento a tre grandi esperienze teatrali con la necessità di due parole, di un’endiadi separata da un trattino disegni al di là della semantica, proprio nell’aspetto puramente segnico dei termini disegni la realtà del teatro stesso, l’essere sempre un qualcosa che si pone come zona molto equivoca di incontro, molto equivoca ma da praticare con molto rigore, non sto parlando di un equivocità nel senso di approssimazioni, ma di qualcosa dove le cose sfumano necessariamente e bisogna sapere l’arte di sfumarle, l’arte di compenetrarle, l’arte di renderle irriconoscibili anche per la loro autonoma pregnanza, per la sua autonoma pretesa di significato; e per quello allora il richiamo ad esempio ad un rapporto come quello contenuto nel testo tra certe posizioni della fisica quantistica attuale ha un senso. Io credo che questo sia un altro territorio di confine che è stato praticato anche a livello di exemplum ben preciso e ben definito, ma forse è ancora da praticare, da studiare, per tutti i portati che puo indurre sul teatro stesso. I temi cm vedete sarebbero infiniti. Io pero ho paura di essere un po’ tedioso perche alcuni, molti minuti li ho gia consumati, per cui penso che la cosa piu interessante intanto sarebbe forse poter bello dibattere, però dibattere richiede anche il fatto di averlo letto, cosa che magari non possiam pretendere [..] però io cederei la parola agli altri interventi.
Giuliano Vasilicò
[cerca gli appunti che non trova] [dice del difetto di parola e dice che si fa aiutare dalla sua aiuto regista se inceppa…etc….] Per non metterci troppo a parlare mi faccio aiutare da una mia aiuto regista che è davanti a me qui e, praticamente, se vedi che io inceppo molto tu mi aiuti cosi, spiritualmente, con il movimento della bocca, in modo che io possa riprendere il filo. Allora, voglio dire, molte volte ci si chiede a cosa serve l’arte del teatro. Io penso che la grande importanza del teatro è che per le sue caratteristiche fa un passo in più della pagina scritta della letteratura, nel gioco della finzione si avvicina molto di più alla realtà perché sul palcoscenico ci sono esseri umani veri che si toccano in carne e ossa e molto vicini all’uomo reale. Uno si chiede “ma dopo l’arte cosa c’è?” per avvicinarsi alla realtà. Ci siamo noi, ci sono gli spettatori. Bisogna arrivare a qualcosa che addirittura vada oltre il teatro. La finzione deve avvicinarsi sempre di più alla realtà. Questo confine che è sempre in bilico fra ragione e realtà. Queste sensazioni io le ho avute durante il mio lavoro, mettendo in scena gli spettacoli e ho notato che non ero io che capivo delle cose, ma era il teatro che me le diceva, e a poco a poco siamo arrivati al passaggio in cui tra finzione e realtà c’era una differenza quasi invisibile perché, per esempio, durante le prove sono avvenuti molti fatti per cui recitando, e una parte e un attore e una parte degli attori hanno avuto loro dei cambiamenti di vita. Ora sto un pò uscendo da dove abbiamo iniziato. Posso dire una cosa, come funziona il lavoro della mia compagnia quando cerchiamo di mettere in scena un romanzo, un’opera letteraria, non mettiamo in scena il racconto, ma il passaggio dalla vita del romanziere all’opera scrittta, un passaggio che a volte è anche molto aspro, quasi sanguinante perché l’autore cerca di creare delle vicende che sono collegate sulla sua vita ma che in qualche modo prima di andare oltre… poi magari non vuole farsi riconoscere nella storia. Quindi il passaggio dalla vita dell’autore all’opera può essere un momento di liberazione, ma anche un momento molto doloroso; questo passaggio è l’argomento che è l’attualizzazione; questo passaggio, come ho detto, anche a volte sanguinante, è lo spirito che deve animare lo spettacolo. Per esempio in alcune opere ispirate a romanzi o a opere letterarie, posso dare qualche esempio forse, per esempio per quanto riguarda la messa in scena di quel libro, diciamo abbastanza forte, che è Le 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade quello che è stato messo in scena è la convinzione dell’autore che il mondo sia diviso in carnefici e vittime e che non ci sia piu niente da fare, che non ci siano piu speranze, che la vita è composta da queste due classi, i carnefici e le vittime, ecco. Questa cosa che il romanziere definisce l’inevitabile in che modo realizzarla sul palcoscenico? Allora nello spettacolo, per esempio, le vittime erano rappresentate sempre in un movimento di spavento, di terrore, di fuga, però questi movimenti erano come sospese, la sospensione di questo movimento, quella che noi chiamavamo la sottrazione del gesto, dava l’idea dell’infinito, dell’eternità di questa condizione; ecco un modo per dare sia l’immagine, ma anche questo pensiero assoluto. Ora, però, leggendo anche la vita del marchese Sade; noi dobbiamo sapere che ha passato quasi tutta la vita nelle prigioni in Francia; non ha potuto, in qualche modo, vivere personalmente questa violenza di cui lui si dichiara assolutamente un convinto assertore che questa violenza va esercitata perché in un mondo fatto in questo modo. Questa cosa nello spettacolo, però, noi abbiamo anche inserito una sensazione che si ha leggendo il libro, che l’autore del libro viva una grande sofferenza nell’asserire con assoluta certezza questa condizione umana; si ha come l’impressione che lui se la prenda con un essere superiore, un Dio in cui lui credeva assolutamente; si sentiva come un urlo che usciva dalle pagine che diceva “Dio perché non esisti”, un assurdo paradosso, se non esisti che cosa gli vai a dire che non esisti? “Dio perché non esisti”: un urlo spaventoso che usciva dalle pagine, lo sentivamo. Allora tutta l’opera, tutto il nostro spettacolo era permeato di questo urlo, con evidente non che si sentiva, ma che aleggiava. Ecco un modo per trasferire dal libro all’opera scenica e rendere sia la vicenda, anche se molto trasfigurata, ma anche le intenzioni segrete che l’autore evita di dire, di raccontare e non inserisce queste parti, ma queste parti si percepiscono leggendo il libro.
[…]
Volevo anche dire qual è il mio pensiero riguardo l’avanguardia. […]
Volevo dire qual’è la mia idea di teatro d’avanguardia. Si diceva, alcuni lo dicevano, altri no, che l’avanguardia era un po’ il nemico della tradizione, io invece penso esattamente il contrario: l’avanguardia è colei che difende la tradizione al massimo, perché nei momenti che la tradizione si sgretola, non mantiene la forza delle origini, ecco che è l’avanguardia che esce dalle tombe e s’innalza, lavora affinché la tradizione riprenda l’idea degli inizi dell’arte teatrale, delle origini del teatro, la polis e il divino, che sono le due cose fondamentali, e non si perda per altre strade; l’avanguardia si sacrifica per la tradizione; loro invece ci hanno sempre trattato male. Una volta che la tradizione ha ricominciato a riprendere le forze che si erano indebolite ecco che a quel punto l’avanguardia si ritira perché ha svolto il suo lavoro; ma ci sarà un giorno in cui ancora la tradizione diventerà non ‘tradizione’ ma ‘convenzione’, allora con uno slancio incredibile l’avanguardia ritorna e riporta la tradizione al suo dovere, a guardare alla origini del teatro, come è nato; perché è nato, perché il teatro fa un passo in più della letteratura, un passo in più della pagina scrittta e si avvicina alla vita. Ecco, una serie di miei laboratori che ho intitolato “Dalla vita all’arte e ritorno”, perché molte volte l’arte aiuta la vita e attraverso le forme di arte più vicine alla vita, e il teatro è la piu vicina fino ad inciamparci quasi addosso, perché ricordo che alcune volte, specialmente negli anni 70, l’avanguardia specialmente esagerava e scendeva in platea e metteva le mani un po’ troppo dove non doveva metterle al pubblico.
Il professor Massarese, che ha fatto una cosa molto nuova, il professore ha apprezzato veramente questo fatto del passaggio della letteratura all’arte scenica.
Un ultima cosa: il mio ultimo lavoro importante è stato molti anni fa la trasposizone scenica dell’opera di Musil L’uomo senza qualità. La vicenda a mio avviso, la vicenda del libro, è la costruzione di un uomo nuovo. Durante i capitoli si sviluppa indirettamente questo argomento e si arriva a un passaggio delicatissimo che è la vera creazione di un uomo nuovo; adesso non ve la sto a spiegare perché lo spettacolo non è riuscito poi a finirlo, e riuscirò un giorno, non so quando, e lo potrete vedere.
Luca Ronconi
Io voglio solamente riallacciarmi brevemente ad alcune cose, ad alcuni temi che ha avanzato Tessari. Prima, una possibilità di riesaminare, o meglio, di riproporre non un nuovo, ma un altro, o meglio, altri possibili modi di percezione da parte del pubblico. Chi segue questo seminario qui mi ha già sentito dire alcune mie opinioni in proposito. Per esempio il fatto che è una pura illusione pensare se la partecipazione del pubblico non sia intermittente: è intermittente. Io posso dire che nella mia attività ho sempre immaginato il pubblico come.., come dire, ho sempre perseguito il desiderio di lavorare per un pubblico che è libero; in questo senso lo assimilo anche al lettore di un libro; quante volte mi è capitato di dire, da sempre, che per me lo spettacolo, l’orribile parola fruizione di uno spettacolo è quello che più preferisco; in uno spettacolo fatto da me è la stessa libertà di un lettore che ha di fronte al suo libro, di prenderlo, lasciarlo, abbandonarlo, ritornarci, e anche ricordarlo, no? È vero che molto spesso mi capita di dire che il vero spettacolo è quello che si deposita nella mente del pubblico e non quello, viceversa, che si rappresenta sul palcoscenico. Per questo… è sulla base proprio di queste.. come dire… non posso neanche dire idee, supposizioni, perché sono qualcosa che mi è sempre stata connaturata e che è stata con me fin da quando… anzi probabilmente è addirittura all’origine della mia passione per il teatro, immaginare un tipo di rapporto fra chi lo fa e chi…, anzi, una cosa che si fa insieme; non ho mai pensato al teatro come a un’attività, diciamo, solitaria, ho sempre pensato al teatro e al pubblico come un tipo di partecipazione; quante volte mi avete sentito dire che per me è una forma di conoscenza e una forma di comunicazione, e che quanti piu sono i modi della conoscenza, della comunicazione, e quanto più è vasta la conoscenza meglio è; infatti, proprio a proposito del tema del libro, non tanto della novità, ma della necessità di alcuni procedimenti e di alcune scelte, di cui fra l’altro io sono abbastanza convinto che non debbano per niente essere definitivi, che trovano la loro funzione proprio nell’essere provvisori, che non la trovano per niente nell’essere nuovi, ma nella loro possibilità di diventare anche vecchi, che non vogliono assolutamente essere delle forme di comunicazione alternative che uccidano tutto quello che c’è, ma che invece convivano con tutto quanto quello che c’è. Su questo sn sempre stato abbastanza deciso, ossia di non voler spazzare via delle cose, semplicemente di correggere […] e di ampliare dei campi di conoscenza. Il titolo del libro di Massarese Teatri/libro, per me è stato così. Devo anche dire che, forse, se posso ripartire da un libro e, ti assicuro, non per identificarmi con il protagonista, non è il mio genere e non è neanche la mia storia, però indubbiamente quando.., e questo lo posso dire con tutta sincerità, quando verso i tredici o quattordici anni, che era il periodo in cui si leggeva tanto perché a Roma c’era il coprifuoco, ed era il 1944-45, ho letto, senza capire tanto perché ero troppo ragazzino, il Goethe; io ancora adesso..la cosa che mi fece impressione è leggere quelle pagine in cui il giovane Meister tutto quello che legge lo trasforma in teatro; quello era un libro, e qualche cosa mi è successo poi, non so se per quella suggestione oppure per istinto, m’è sempre capitato che non soltanto ciò che è destinato alla rappresentazione io vedessi come teatro, ma anche… Dunque anche la frequenza nella mia attività, che giustamente come dice è solamente una parte perché ne ho fatte talmente tante, e perché quel fenomeno che è il teatro mi è piaciuto sempre indagarlo in tante sue possibilità e non solamente affermarlo in quella che è il mio istinto piu sicuro; tantissime volte infatti ho fatto ricorso a…in forme molto diverse, ma non solamente…. ; e parlo proprio di libro non soltanto di racconto perché, per esempio, addirittura, essendo arrivati…, oltre il libro devo dire proprio carta stampata, un paio d’anni fa figurati ho iniziato a studiare anche la possibilità di far diventare lo spettacolo un giorno qualsiasi di un quotidiano. Un altro tema che tu hai trattato è quello di spazio/tempo; non è una novità che il teatro sia il luogo dove spazio e tempo si possano incrociare; certo, indubbiamente, anche certi luoghi comuni, diventano poi oggetto di indagine seria al momento che trovano il loro nome. Mi riferisco a ciò di cui parla il libro, a delle esperienze di Giuliano, io ricordo benissimo il Sodoma, o certe cose di Carmelo, rispondevano, secondo me, ad una necessità, almeno nel mio caso non rispondevano ad una necessita di cambiamento, ad una volontà di cambiamento, ma semplicemente a una necessità di cambiamento, non soltanto una specie di adugiamento di alcune convenzioni. Io continuo a pensare: anche se il nostro mondo teatrale oggi non è affatto in una situazione di cui rallegrarsi, però continuo a pensare che il livello e la qualità del nostro teatro non sia peggiorata, e non sarei per niente pessimista sulle nostre sorti; devo anche dire che però sono delle sorti che noi abbiamo nelle mani e che specialmente quelli che c’hanno adesso l’età di parecchi dei ragazzi che stanno qui hanno una notevole responsabilità a cercare di.. non dico di fare quello che noi abbiamo fatto, apparteniamo ad un’altra epoca, e penso che possa diventare importante proprio nella misura che è diventato vecchio. E anche per questo mi pare che ti devo ringraziare perché certi temi che, parlo della mia esperienza personale, che io ho affrontato, e che in qualche modo mi sono buttato dietro alle spalle, trovino tuttora un interesse; questo, in qualche modo, è piuttosto consolante, pensare che qualche cosa che si è fatto, e devo anche dire che forse non si è neanche piu capaci di fare, eh eh eh…no no, no no no, no no, è vero, non lo dico per… Per esempio Infinities è uno spettacolo abbastanza recente, posso dire anche due parole su questo, per esempio non tanto il libro, la non c’era racconto, però attraverso proprio quelli che sono i condizionamenti piu gretti della rappresentazione (quanto dura, quanto pubblico c’entra, quanto costa, che sono dei condizionamenti contro cui abbiamo sempre a che fare e che è giusto che ci abbiamo sempre a che fare), però se si è riusciti a rappresentare un’idea di spazio/tempo ciclico che non era neanche previsto nel testo, ma che è venuto fuori dalla rappresentazione; indubbiamente per me l’esperienza che ho fatto mettendo in scena il Pasticciaccio di Gadda, non facendolo per intero, però facendo anche un romanzo che di per sé non è intero, proprio a questa frammentarietà ci tengo molto perché penso abbastanza un segno dei nostri tempi una drammaturgia che riflette la tendenza del pubblico alla spezza… al frammento, a cogliere… e che sia come un puzzle che poi lo spettatore si rimette in sé, in questo senso io intendo la libertà del pubblico, non è solamente la libertà di andarsene quando s’annoia. Indubbiamente hai fatto bene a fare una distinzione fra il pubblico quantitativo, che rispetto ad anni di civiltà teatrale migliore della nostra è molto aumentato, però noi dovremmo…sarebbe bene cercare di lavorare un pubblico, viceversa, del tipo di cui parlavi te. Spesso mi capita di dire agli attori “guardate che voi oltre che interpretare una figura, un personaggio, ma comunque -dico sempre che- un personaggio non è un tuttuno ma è un agglomerato di altre figure; in rapporto al pubblico non si tratta di dare delle certezze, ma si tratta di aprire delle domande e di lasciare al pubblico il compito di rispondere, ossia aprite dei vuoti che devono essere riempiti”; ecco, per esempio, questa è una forma di comunicazione, e credo che almeno negli spettacoli che tu hai citato, sia Carmelo, sia Giuliano, sia io, abbiamo cercato di fare qualcosa del genere.
Ettore Massarese
Che dire…perché naturalmente… Adesso cerco di sdoppiarmi e riflettere sull’altro me che ha scritto questa cosa; forse è il modo migliore per cercare di gestire i temi così complessi, ritornare… tra l’altro con la presenza dei protagonisti del libro; e dico la presenza dei protagonisti… uno dei tanti motivi che mi ha spinto a coinvolgere l’amico Tessari in questa cosa, se permetti la racconto, è che nel mettere le mani in maniera furtiva ed elegante nelle carte non ancora uscite di Carmelo Bene, nell’archivio di Casa dei Teatri, ho aperto, abbiamo aperto insieme alla Pelliccia che governa questa cosa, la scatola con su scritto Pinocchio; l’abbiamo aperta, abbiamo tirato fuori tutti i materiali, compreso quelli che sono pubblicati in appendice, e c’era sottolineato, fotocopiato, pieno di glosse, il Pinocchio. Summa teologica di Carmelo Bene di Roberto Tessari, tenuto come unico libro presente in questo scatolone oltre ad alcune recensioni a lui più care. In qualche modo, a proposito di lemuri che vagano tra libro, pagina eccetera, tu sei in qualche modo anche la configurazione corporea di una quota di Carmelo e credo che questo non può che portare bene, nel senso che il teatro è continuità… a parte che sei testimone citatissimo della genesi del Pinocchio. Che dire, quello che diceva Tessari e quanto hanno detto Vasilicò, e Ronconi, naturalmente, non potevo sperare di meglio che conferma di una pista di ricerca, naturalmente apertissima, non conclusa, non definitiva, che non ha alcun intenzione di stabilire nuovi canoni; su questo sono d’accordissimo, anche perché chiunque si voglia ergere a stabilire un canone ne ha già decretato al morte perché in qualche modo tutto ciò che conclude, come diceva Pirandello, s’assimila alla morte, quindi viva la frammentarietà, viva l’inconclusione, viva l’indagine inesausta, assolutamente porosa e aperta. E io proprio su questo tema, su questa cosa che aleggiava in alcune cose che ha detto Tessari, in alcune cose che ha detto Giuliano, in alcune cose che ha ribadito [Ronconi]… non a caso io comincio il capitolo su di te con quella citazione dal Wilhelm Meister; naturalmente, la cosa ti è molto cara, lo dicevi anche alla Maraini in quella confessione che ho riportato. C’è sostanzialmente un punto che, come dire…, lo spazio del libro, lo spazio del teatro, sono solo spazi fisici della mente, sono spazi fisici della mente che configurano in qualche modo, il modo in cui il corpo entra in contatto con la necessità di artefare, di essere artefice di qualcosa che lo prolunghi, che sia parte di sé; un’immagine che adopera Nietzsche, e che io adopero in esergo, è: la mente dell’autore che come un insetto si muove tra le pagine e continua a vivere dopo la morte dell’autore fra le pagine del libro; il capitolo si chiama Il libro fatto quasi uomo, c’è questa sorta di estensione del corpo nella pagina, estensione del corpo [?]. Mi è capitato di dire altre volte, in un altro volume che si chiama Il teatro assente, che a volte sono le retoriche che impongono il modo in cui l’estensione corporea diviene un’opera. Un esempio forte che facevo in un altro libro è che se Tasso fosse vissuto in età elisabettiana e Shakespeare fosse vissuto nell’età tardo rinascimentale, probabilmente entrambi, è un gioco, potevano scambiarsi i ruoli, cioè i modelli di visione della Liberata sono modelli….o anche raccontati nelle lettere da Sant’Anna, dei sogni eccetera, sono visioni fantasmagoriche che si estendono, naturalmente, al di là come una notte insonne che è diventata retorica di scrittura; è un poema con tutte le ossessioni splendide perché la retorica vincente era quella. Allora cos’è il bello, a proposito di tradizione e innovazione, che proprio la griglia retorica, cioè tutto quello che impone, in qualche modo la misura, la necessità di vendere un’opera, la necessità che venga accettata, se c’è il genio compositivo di un corpo che vuole essere estensione, cioè che vuole vivere, allora in quel caso diviene l’opera, il capolavoro, e non ha importanza; continua a vibrare in quella pagina. O se alla corte elisabettiana c’era naturalmente una istituzionalizzazione del teatro come atto sociale, pedagogico, non a caso struttura circolare, anche quella ha un significato architettonico, no, cioè non frontalità ma prua che si immerge tra il pubblico, visione del gioco scenico assolutamente en plein air, e tutto questo significava che i corpi vivevano, artefacevano la vita nell’atto, in contemporanea con la scrittura; è nota la vicenda degli in-foli shakespeariani, che arrivano di volta in volta anche attraverso copioni di attore, attraverso la delega delle parti che vengono messe insieme, no, tutta la famosa questione; c’è un libro che si fa opera, oggi chi può dire che l’opera shakespeariana non sia un libro, per fortuna no, naturalmente, però è un libro in cui, qualcuno ha detto, il corpo è inteatrato, cioè è rimasta, naturalmente, l’impronta di quei corpi vagantes che si estendevano sulla scena. Ma perché, dico io, i corpi della Gerusalemme devono avere meno un valore, meno forza, continuano a vibrare come insetti nell’ombra dice Nietzsche, cioè come qualcosa che ha bisogno di essere raccolta, è questo il punto; il lettore lo fa, il lettore quando entra nelle pagine fa l’andirivieni e, come dire, questa sorta di immersione, di doppio, … a me piace molto l’espressione di Ronconi la bilocazione, è una cosa complessa, ma importante nello stesso tempo, è un’espressione tua che a me affascina moltissimo, che credo che si eserciti non solo nell’attore, che è in quel momento corpo in scena ma anche corpo che viaggia, che deve dichiarare da dove proviene, dal libro, da quelle pagine, dagli altri corpi che l’anno vissuto, e quindi, come dire, è la gestione del doppio che realmente è la quota del lavoro d’attore, però non puo rimanere solo alle spalle ma deve essere continuamente visibile, oscillante continuamente; ma questa esperienza la vive anche il lettore, è la parità fondamentale; infatti non parlo di spettatore, ma parlo di attanti e astanti, a qualcuno può dare fastidio, però questa omofonia quasi tra l’attante e l’astante, questa vicinanza del suono sta anche a significare una vicinanza d’appartenenza, una comunità che insieme fa viaggiare i corpi. E questo è fondamentale perché l’opera si fa quando la si legge, l’opera si fa quando la si vive. C’è molta passione in quello che dico, ma naturalmente anche una splendida frammentarietà perché le cose si formano man mano che ci torniamo, non sono ferme. Voglio dire, per esempio, la copertina del libro, è il frontespizio dell’edizione del 1782 del Tristam Shandy di Laurence Sterne. Lo sapete che Hogart illustrò la prima edizione; sono andato a vedere le illustrazioni di Hogart, e quanto Hogart si avvicina alla sensibilità del corpo in scena, nei suoi elementi grotteschi, nelle sue espressioni totali; tra l’altro nel frontespizio si vede una serie di figure, chi dormiente, chi sta fumando, degli attanti e degli astanti e c’è questo personaggio che legge un libro, c’è questa dinamica con al centro una cosa molto presente nel Tristam Shandy, per chi l’ha letto, è l’orologio a pendolo, cioè la scansione del tempo. La lettura del libro così come l’avvento nello spazio, come dire, nella bocca di sospensione del teatro è il momento in cui il concetto di durata subisce una curvatura spazio/temporale, un’espressione che è molto cara ai fisici, una curvatura spazio/temporale che rende la realtà porosa; allora il problema non è arrivare alla realtà, a questo quid metafisico, a cui tutti sognamo di arrivare, chi crede chi non crede che ci sia qualcosa, ma probabilmente ci sono molte cose; allora sottolineare la porosità, sottolineare che i codici hanno una zona di soglia, sottolineare che il veicolo che unisce libro/teatro, anche libro/teatro/quadro o.., significa sottolineare la porosità, la molteplicità dei corpi. Io credo che per un attore questo sia molto importante, sapere per esempio che giocare con il corpo dentro questo viaggio significa renderlo poroso, molteplice, significa sapere che il personaggio non è la mimesi unica di un quid identificato, ma che è un viaggio tra molte realtà oscillanti perché al di là della schizofrenia, altra vecchia storia, che è invece, diciamolo pure, una molteplicità molto divina, un’intuizione che aveva avuto Giordano Bruno, cioè la possibilità, o i neoplatonici, la possibilità che questa divinità si sia immessa in noi come molteplicità, che sia arrivata in noi attraverso questa scansione delle idee che si comunicano, si, attraverso i libri, ma i libri, bellissimo il finale del film di Truffaut Firenight 451, ma i libri sono i corpi che li attraversano, i libri sono l’identità, direbbe Artaud: il soggettile, la materia, che il corpo ha usato per estendersi e che ha una sua durezza, una sua estensione che comincia ad avere una sua autonomia. Da questo punto di vista, per esempio, io nel libro traccio una linea che va da Pirandello a Ronconi e Bene e a Vasilicò, che è appunto… Io lo so, l’ho saputo e sono molto felice, sono curiosissimo, voi [gli studenti] state lavorando sui Sei personaggi. Be’, la genesi dei Sei personaggi è in quest’ossessione. Io in un altro libro la faccio partire da All’uscita, ma sappiamo bene che parte da un romanzo che è Uno nessuno e centomila, che è il crogiuolo da cui lui preleva i personaggi, l’andirivieni…Naturalmente così come prova il suo corpo come estensione nello spazio, lo spazio quando entra il corpo cambia, come pure cambia lo spazio/tempo di un libro quando entra un lettore. Allora l’unità percettiva lettore/spettatore sta a significare, e quello lo dico con forza, la libertà, santo il dio, ecco forse questa è la cosa che voglio dire anche sul piano civile e pedagogico con forza: la libertà di riscoprire questo viaggio, la libertà etica di riscoprire la sua forza rituale, di tornare al mito; mito che cos’è se non condivisione di un già conosciuto che si rivive per ritrovare l’orizzonte antropologico di appartenenza; che cos’era il rapporto tra il mito e la tragedia se non questo, e che cos’era la conoscenza dei miti se non il libro posseduto dalla collettività che diventava corpo, che cadeva in corpi concreti che erano assolutamente, volutamente, non identificabili come personaggi, tant’è vero che si moltiplicavano le maschere e si sostituivano, e la forza era data da una collettività, la forza del racconto che era il coro; cioè c’era una forma di melica, e qui entra il tema della musica che è un tema complesso, che veicolava un racconto collettivo. E questa è la fondazione del teatro occidentale. Fa benissimo Ronconi a dirlo, lo dice più volte, lo ricordava Tessari: la forma del dramma moderno è una parentesi che si è realizzata importantissima perché fonda il rapporto teatro-città, naturalmente stabilisce la forma istituzione dell’edificio teatro, produce opere di grandissima rilevanza con le quali ancora ci confrontiamo, ma è legata, naturalmente, come la falsa scoperta della Poetica di Aristotele a un uso civile della scena che stabilisce anche delle gerarchie, che vanno dalla committenza, a chi deve scrivere l’opera, alla catena produttiva, a quel modello che fa vivere, che fa vivere e mangiare tante persone anche oggi, e che fa vivere e mangiare tante persone nel tempo, e che io non demonizzo affatto, assolutamente, parlo con molto affetto, io dico, non è il teatro/libro. Faccio un esempio: Il fu Mattia Pascal adattato da Kezich, che ci ha lasciati da poco, però ne parlo con affetto e ne parlo come uno spettacolo memorabile. Naturalmente non è il teatro/libro, quella è una trasposizione nella forma romanzo di sottrazione di parti diegetiche, con rafforzamento di parti mimetiche e, benissimo, è un’altra cosa. Quindi è chiaro che non è una battaglia tra forme o tra canoni, assolutamente, sarebbe un errore fenomenale metterla così, demonizzare l’altro, anche perché al di fuori del concetto di comunità teatrale. Allora il punto è un altro: appunto riflettere, bello che sia dia l’occasione di oggi per farlo, proprio usarla così, infatti ho insistito per registrarla questa cosa che stiamo facendo perché magari può restarne traccia, possiamo lanciarne fuori una provocazione; ecco, questo credo sia il punto. Un’ultima parola visto che al di là delle facezie non c’è Carmelo, lasciatemi il vezzo di ricordare che ho avuto la fortuna di lavorarci insieme, anche se la cosa piano piano riemerge ma è poco ricordata, era l’86, fu un’esperienza particolarissima, venne a fare parte dell’Inferno e Virgilio nel sottosuolo di Napoli quando facemmo Viaggio nelle viscere nell’86. Io credo che la scelta del Pinocchio è legata, naturalmente non a caso, alla natura del libro, che è appunto un libro che appare un libro per bambini, ma la domanda che si farà Carmelo Bene “quali bambini?”, ed è il privilegio di quei bambini che poi lui porterà in scena a Pisa nell’ ’81, al Teatro Verdi di Pisa; vale a dire quando lui parla di corpo inorganico, dell’inorganico e della voce dell’inorganico; allora da questo punto di vista la presenza fisica del libro nell’allestimento, che io ho richiamato molto, la preparazione del menabò di preparazione che ho messo in appendice, molto ossessiva, molto particolare, là sembra un canovaccio seicentesco perché ci sono le robbe da un lato e le indicazioni… addirittura gli indi di passaggio che era una forma che troviamo solamente in Flaminio Scala, no?, nei soggetti seicenteschi, sta ad indicare un’idea di scrittura scenica, di scrittura del corpo del libro, in cui il libro è presente… lui lo chiama l’altro codice, come una sorta di continuo rimbalzo dell’inorganico che il libro è diventato che assume vibrazioni di voce; e da questo punto di vista, il Pinocchio, tra le tante esperienze di teatro/libro di Carmelo Bene, mi è parso quello, da questo punto di vista, sul quale valeva la pena di ragionare. Ma c’è da dire, il discorso sarebbe lunghissimo, il rapporto con Giuliano Vasilicò, ad esempio, è un rapporto d’affetto prima di tutto; lui non sa neanche quando nasce, anche se l’ho scritto nel libro, nasce in una brutale riunione dell’Agis, in cui c’ero anch’io, una notte dei lunghi coltelli in cui si stabilì l’aziendalizzazione della quota sperimentale; chiaramente l’aziendalizzazione prevedeva che i laboratori non fossero finanziati; furono brutalizzati tutti quelli che se volevano muoversi sulla strada della conoscenza, figuriamoci quelli…eh eh…da anni a baloccarsi, lo dico con altezza di termine, col Musil era diventato insopportabile per quelli che dovevano fare 30 giorni di prove e andare in scena e chiamarsi sperimentali, riconosciuti con l’etichetta del ministero. ‘Sta cosa la racconto con nomi e cognomi, da un po’ di tempo che lo faccio, nessuno mi querela, tanto io ero testimone. E quindi, voglio dire, il mio affetto per lui nasce da quel direttivo e poi si è rinvigorito nell’incontrarlo su questa cosa. Io devo dire ho sentito degli accenti di Giuliano molto simili a quelli avuti nell’incontro quando abbiamo preparato.. l’ho riascoltato per preparare questo libro, lasciatemi dire che mi ha colpito l’espressione “dalle pagine ci arrivavano le urla”, ecco, la fisicizzazione della sensibilità ricettiva degli astanti, ah ah, giochiamo sempre su ‘sto gioco di parole, ecco… se si crea questo ponte è il miracolo di cui stiamo parlando, questo è il punto del teatro/libro. Un’altra cosa molto bella che ho sentito adesso da Ronconi è il rapporto infanzia, la guerra, il coprifuoco, il libro, cioè ha parlato di una cosa che appare scontata ma non lo è affatto, cioè la solitudine della lettura che prepara all’apertura alla collettività, cioè il rinnovamento, il senso pedagogico, poetico, poi, di comunicarlo; quest’esperienza adolescenziale, forte, anche violenta se vogliamo, no?, l’esser chiusi, i bombardamenti, le famiglie disperse, chi da qui, da ‘na parte, chi dall’altra, quindi il libro diventa la visione, ma diviene la visione, i corpi che diventano il tuo corpo, il tuo corpo diviene estensione, necessità, per far viaggiare altri corpi. Allora, solo una cosa, sui termini io e te [Giuliano] non ci incontriamo mai, non sarà mai trasposizione dalla letteratura al teatro, ma è trasmigrazione dei corpi, sono i corpi che persistono dentro le forme che per accidenti noi ogni volta scegliamo per estensione; è il teatro ha privilegio, però è anche una dannazione: che questi corpi li deve far consistere per forza, attenzione, che è un privilegio e una dannazione; quante volte giochiamo a dire “il corpo invisibile a teatro”, “l’assenza ha più potere che non la presenza”, “il non vedere è più forte del consistere”, “Ah”, come dice Amleto “Ah se questa troppo troppo solida carne potesse svaporare come rugiada al sole”, è il sogno dell’attore, cioè quello di andar via e di reintegrarsi altrove, è un viaggio di farsi e rifarsi, proviamoci anche stasera chiacchierando, grazie.
Adesso Roberta sentiamo qualcuno di loro [il pubblico], siete voi i padroni di casa.
Roberta Carlotto
C’è qualcuno che vuole intervenire con qualche domanda? I temi sono stati talmente tanti che quindi credo che le domande possano essere, invece, molto piu semplici, ossia affrontando uno dei tanti temi che sono stati toccati; e sennò decidete un po’ voi come preferite. È difficile rompere la prima frontiera. Siccome voi state lavorando in questi giorni qui, da giorno a sera, se avete delle domande o comunque delle curiosità che possono riguardare delle cose così diverse, ma che poi hanno un fondo… temi comuni, ma direi senza cercare di raccoglierli troppo, ma proprio anche con delle domande, degli interrogativi, anche delle distanze, per esempio, anche rispetto a Vasilicò che per età forse non avete visto, mentre credo che gli spettacoli di carmelo bene in parte li avete visti in parte sono anche molto registrati; Ronconi spero, mi auguro, lo conoscevate, ah ah, se c’è anche qualche curiosità che vi interessa sapere, conoscere, noi siamo qua; se invece pensate di aver avuto la giornata piena possiamo anche… che dici Luca? Non lo so, in genere finisce sempre un po’ così, almenoché non ce ne sia uno che abitualmente è quello che fa le domande. [continua ringraziando il sindaco di Gubbio, e altri…
Omissis…
Roberto Tessari
è la libertà di cui parlava prima Ronconi […]
[…]
Luca Ronconi
Posso dire una cosa? Che probabilmente una reazione così lei l’ha avuta perché Carmelo se l’aspettava; una reazione così era semplicemente la risposta naturale che Carmelo desiderava che accadesse; e poi, probabilmente, per Carmelo, le scelte sono sempre reciproche, cioè il pubblico sceglie l’artista, ma anche l’artista sceglie il pubblico, e la libertà è proprio quella. Devo dire che molto spesso, e questo lo posso dire per esperienza personale, io sono stato per esempio scelto dallo stesso pubblico che m’ha rifiutato, perché poi le cose vanno in un certo modo. Per esempio, Carmelo fece delle cose che erano assolutamente nuove; la novità disturba sempre, non viene accettata; quindi, per rispondere, io credo che un tipo di rifiuto facesse parte del programma in qualche modo; non possiamo pensare Carmelo come qualcuno che agiva per essere universalmente apprezzato, non credo. Io penso proprio che il rifiuto fosse una cosa contemplata, e contemplata anche generosamente, non credo ci fosse un’ostilità… Sa spesso cosa mi dispiace nel rapporto tra teatro e pubblico? Il disprezzo; ossia che una persona che fa il nostro lavoro disprezzi il pubblico; e questo devo dire che ci sono moltissimi attori e moltissimi colleghi che sono animati …, e anche piacciono, sono anche apprezzati, per questo atteggiamento, ecco; io invece quello lo trovo un atteggiamento riprovevole, e, devo dire, anche un eccesso di generosità nell’apprezzamento.
[…]
[Qualcuno chiede a Vasilicò precisazioni su quello che ha detto su tradizione e avanguardia…]
Giuliano Vasilicò.
È che non mi sono spiegato bene. Non è che l’avanguardia aiuta la tradizione a rimanere la tradizione, conservatrice, no no, io non intendevo questo, [..] dicevo il contrario, che l’avanguardia non è la nemica della tradizione, ma è colei che vuole che la tradizione si rinnovi, ma soprattutto che rimanga ancorata alle motivazioni originali della nascita dell’arte del teatro; le motivazioni non è che invecchiano. Ma la tradizione molte volte si molla, diventa debole, diventa convenzione, da quel momento l’avanguardia che vuole mantenere le motivazioni originarie che sono di aiutare gli uomini a comprendere se stessi e altre cose che […]. poi magari ho una cosa che avevo scritto che funzionava meglio di questo che sto dicendo, cioè vuole che la tradizione non rimanga tale, non rimanga conservazione, ma come ogni arte deve essere continuamente in evoluzione; ma si indebolisce, allora l’avanguardia si erge a difesa, ma soprattutto a baluardo, come se l’esercito che avanza, un esercito avanza, poi a un certo momento tutti si indeboliscono, allora un gruppo di soldati invece va avanti, avanti per far ricaricare le forze; non so se mi sono spiegato bene, ma ne farò una pagina.
[…]
Oggi negli “Archivi di memoria” entra l’incipit di un mio libro che è in corso d’opera. Mi piace qui pubblicarlo perché dentro vi sono molte tensioni vicino a quello che amo definire “il mio teatro”. qualcosa era già apparso , in forma frammentaria nella categoria “il cerchio di fuoco”. Ne propongo l’introduzione. Naturalmente non ritengo opportuno frazionarlo, anche se mi rendo conto che non è costume, in questo blog, pubblicare articoli di una certa lunghezza. Mi affido pertanto alla vostra pazienza e alla voglia di approfondire. In ogni caso m’è caro stipare in questa sezione materiali da condividere e, come dire, affidare a memoria…
Buona lettura.
IL SIPARIO OSCURO
la percezione dell'(ir)rappresentabile
Per un indice
Una premessa:
Dal vedere al rappresentare. Il disordine percettivo.
“Un po’ paradossalmente posso dire che i concetti con cui ho lavorato sono, per un certo senso, almeno ispirati alle arti visuali (e intendo dire sia la pittura che le arti sceniche, il teatro, ecc.) ho cercato, in sostanza, di rendere conto di una funzione di spazializzazione della scrittura. Potevo fare ciò solo considerando la scrittura come un qualcosa che non si riducesse alla traduzione di una parola, e come qualcosa che avesse un campo, uno spazio suoi propri e una visibilità specifica: cioè una concettualizzazione della scrittura fa appello a una problematica pittorica o scenografica o plastica”
Cosi Derrida in un intervista del 19701…
Ma avviene, non di rado, che il vedere e il rappresentare siano tra loro incommensurabili, posti come sono dentro la resistenza della tekné occorrente a tradurre la visione in spazio rappresentato. Il soggettile2 (la materia su cui imprimere la visione in rappresentazione) spesso muta il segno trascritto in altro, porta deviazioni in colore, luce parole, diviene, da sé, territorio di altra visione che con la visione prima più non s’apparenta. Ma se il controllo sfugge, ciò che la mente trasmette è un tradimento della visione, è una dolorosa trasmigrazione in un mondo inatteso (Van Gogh)3…Come definire la natura di questo ‘mondo inatteso’? Se, come afferma Derrida, la scrittura ha una sua spazialità che “fa appello a una problematica pittorica o scenografica o plastica”, dobbiamo, allora, considerare che ciò cui la scrittura rimanda non è la visione in quanto tale, ma è uno spazio pensato, concettualizzato, qualcosa che si apparenta a una lucida soglia onirica.V’è stato un lungo e significativo dibattito intorno alla distinzione, ad esempio, tra testo scritto e testo-spettacolo, una distinzione che s’è resa ‘necessaria’ soprattutto quando, con l’avvento della regia, gli allestimenti hanno assunto una forte caratura autoriale4. Non torno, qui, ovviamente, sulla questione. Quello che nel mio studio mi interessa porre a fuoco è, ancora una volta, la zona che precede l’artificio in senso stretto, sia esso letterario o specificamente teatrale. Del resto (e gli oggetti che sottoporrò ad analisi a questo criterio rispondono) vi sono opere (artifici, se più piace) concepite ed elaborate quasi interamente nel perimetro della zona cui alludo; esperienze che, di fatto, fanno saltare il banco dell’ inter-soggettività5 drammatica e che, per esser percepite, non chiedono all’astante di sottoporsi all’illusione mimetica, ma di contro, d’entrare nella fabbrica stessa dell’illusione, dell’artificio appunto. Nel mio ultimo lavoro ho analizzato come questo processo venga posto in opera in alcune opere di Ronconi, Vasilicò e Bene, opere tutte che si muovono a partire, in modi diversi, dal momento del concepimento da parte dell’autore, un allestimento, quasi della zona aurorale dell’opera traslata in scena6. Ma in questa sede l’avventura analitica si sposta in un’area dai contorni meno certi, meno distinguibili (nei miei Teatri/libro v’era comunque da fare i conti con allestimenti compiuti, fuori dal canone di una drammatizzazione mimetica, ma pur sempre opere la cui realizzazione, comunque, venne affidata a solide leggi d’artigianato attorico e registico); un’area, dicevo, dove le leggi dell’artificio sono messe in discussione e gli artisti o i soggetti che, a qualsivoglia titolo, vi operino, non sono strettamente identificabili nei canoni della professione teatrale in senso stretto. L’area (dovrei forse dire l’aria) cui mi riferisco spirava, certo, forte, nel tempo delle cosiddette avanguardie storiche, e, dunque, con qualche sapiente rimando bibliografico, avrei già risolto e compiuto il mio viaggio7. Ma il punto, qui, è scovare, lungo l’andirivieni della felice e tormentata storia della scena occidentale, artisti, opere, avvenimenti, che si son mossi oltre la soglia del sipario oscuro, sul ciglio dell’orizzonte degli eventi, in quella ch’io amerei definire la zona carsica8. Ho adoperato tre metafore d’ordine ‘scientifico’; avrei potuto dire, per chiarire, il sipario che vela il confine tra materia ed antimateria, tra visibile ed invisibile, tra percepibile e solo intuibile.Potrei, più in chiave allegorica, narrarvi di un’ipotetica tribù ai confini del mondo. Immaginiamo, ad esempio, un gruppo di umani in stato tribale, al tempo delle migrazioni, quando il nomadismo portava le genti ad esplorare e ad adattarsi di continuo in regioni sconosciute. Ebbene, questo gruppo di umani, per persistere con una identità ‘forte’, in grado di tenere unita la tribù, ha bisogno di costruirsi un immaginario condiviso, una cultura come si dice, un qualcosa che faccia, al tempo stesso, da collante sociale e da catalizzatore del linguaggio e di tutte le modalità espressive del gruppo. Immaginiamo la tribù nomade unita intorno al fuoco. La luminescenza delle fiamme crea un cerchio, un’area di visibilità; oltre quest’area l’oscuro, le tenebre di una notte fredda in una regione sconosciuta; all’interno del cerchio i racconti, i canti, le danze. Gli occhi della tribù percepiscono solo le figure oscillanti rese umbratili dal fumo e dalle fiamme incerte, in alto l’immensa volta celeste, un tetto, si percepibile, ma distante, non rassicurante; il tetto dell’universo si estende anche nell’area delle tenebre, da dove provengono fruscii inquietanti, il vento, voci d ‘esseri ignoti. Ecco che in questo scenario lo sciamano evoca gli spiriti benigni e protettivi che provengono dall’ignota volta stellata e dal mondo delle tenebre perché entrino in conflitto con le entità oscure e maligne portatrici di un pericolo ignoto. Sono questi gli attori in maschera che danzando e cantando in estasi ripresentano all’interno del cerchio di fiamma le presenze che albergano nel buio oltre l’oscillazione visiva del cerchio. Ed il conflitto tra gli spiriti mascherati si fa drammaturgia culturale della tribù, è il suo teatro. È così che viene condotta nel mondo del ‘visibile’ l’oscura energia del buio, è così che la via d’ingresso degli spiriti delle tenebre e del cielo stellato, dei e demoni, viene governata da un codice di rappresentazione condiviso, un rituale che esorcizza le paure collettive conducendole all’interno della cultura visionaria, di rappresentazione, del gruppo; il limen tra il visibile e l’invisibile è dunque la porta, il sipario, attraverso la quale entrano solo i fantasmi che possono essere gestiti, ripresentati in maschera, ricantati in una melodia e in un ritmo che ne comanda i fremiti, le voci. È qui che si intreccia il filo diretto tra il mito, la simbologia che ne deriva e le icone di rappresentazione che ne nascono, è qui che vibra la membrana sottile tra la natura, il sacro, il rito e la performance. La spazialità della scrittura, di cui parla Derrida, si confonde con lo spazio occupato dai corpi danzanti e vocianti che transcodificano in forme visibili l’oscuro racconto condiviso dal gruppo. Oscuro perché non proviene dai territori della conduzione quotidiana, pure obbiettivo di miglioramento nelle azioni rituali, ma dall’incombere di presenze invisibili provenienti dall’ombra della memoria collettiva. È dall’ombra, appunto, che il corpo attante trae la sua energia, con un meccanismo non dissimile al sonno ristoratore che il vegliante affida al dormiente quando questi inizia il viaggio nella zona onirica. Questi, direbbe Eraclito, sono i tortuosi sentieri di conoscenza dell’anima, l’arte performativa delle origini percorre questi sentieri. Ciò che canta, danza, recita è l’essenza stessa delle cose nelle multiformi e variegate estensioni della natura e dei corpi viventi che ne occupano lo spazio in un’indistinguibile simbiosi. Ciò cui tende la rappresentazione rituale è, dunque, il ricongiungimento – riconoscimento dell’umano col naturale, ciò cui tende la performance che ne consegue è l’approdo all’origine prima. È questo il senso corretto per intendere il sovrapporsi della cavità teatrale alla cavità orale, proposto da Scheckner, laddove l’etimo dell’oralità è chiara allusione non solo al vano d’espirazione del canto e della voce, la bocca appunto, ma al percorso che compie l’emissione dal ventre diaframma sino alla cavità orale: dall’ombra sotterranea del corpo sino al vano d’apertura , di contatto con l’altro, con l’esterno. Questa ovvietà fisiologica nell’atto performativo si sottrae ad ogni automatismo inconsapevole per divenire, di fatto, viaggio consapevole verso l’origine, verso il ventre-diaframma dell’essere. Numerosi studi antropologici hanno analizzato i meccanismi posti in opera nella performance rituale per dar forma all’ ‘oscuro’ condiviso, sia esso costituito dalle narrazioni magiche del mito o da inspiegabili ed inquietanti fenomeni naturali; ciò che, tuttavia, in questo mio studio, intendo sottoporre ad analisi è il riproporsi di un tale meccanismo negli artifici della cultura e della scena occidentale: parlo della ‘sensibilità’ all’invisibile che molti artisti hanno adoperato , scientemente, per proiettare l’ombra (la zona carsica) all’interno del decoupage visivo della rappresentazione. In sede di premessa può essere utile analizzare l’evidenza del riemergere della sensibilità all’oscuro, alla zona liminale tra il visibile e l’invisibile, nel monologo di Amleto più consunto dall’uso e dal riuso, quel To be or not to be che ha fatto la fortuna dei grandi mattatori del moderno e del contemporaneo da Kean a Gassman. A partire dall’endiade oppositiva che apre il monologo, Shakespeare fa confrontare il suo personaggio con il tema forte, ritornante, della precarietà dell’avvertenza corporea dell’essere, pronunciata da colui che fin dal suo dire d’esordio ha espresso il desiderio di “evaporare”, di alleggerire il peso dei mali di cui la “carne è erede” , sciogliendo in rugiada la “troppo solida carne”. Tra l’essere e il rappresentare sembra esserci un abisso, un viaggio verso il non essere che può essere colmato solo dal sonno del dormiente , che si assimila alla morte: morire, dormire, sognare, forse. Percorsi nell’ombra, percorsi eraclitei. Ed il senso del limen è segnalato da quel riferimento all’ undiscovered country troppo facilmente liquidato come definizione dell’ al di là. “La regione sconosciuta” , oltre la soglia del percepibile, designa il lato oscuro della coscienza, l’impotenza dell’io consapevole di potervi accedere. Credo che questa possibile lettura possa spiegare la felice scelta di Gordon Craig, posta in opera nell’allestimento del 1911 al Teatro D’arte di Mosca, di produrre l’immagine di un’ombra/doppio costantemente affiancata ad Amleto. Ecco, l’ombra, anzi le ombre, moltiplicate ed inquietanti, impresse nella fuga dei pannelli che le rifrangono (vedi figura del bozzetto del 1909). In un bozzetto più tardo (1928) Craig tornerà sul monologo mostrando Amleto avvolto , lui ombra, in un mare d’oscuro in tumulto. Ecco il punto. Craig, che è intriso di cultura antropologica, progetta il suo Amleto avendo cura di collocarlo alle soglie tra il visibile e l’invisibile e quel suo famoso It’s a dream but a shadow sembra esplodere appieno nei visionari bozzetti di Craig. Qui, entriamo, forse, in uno degli snodi più significativi inerenti il passaggio, spesso irto e non compiuto, tra visione e rappresentazione, tra ideazione visionaria e allestimento, passaggio che è il principale obbiettivo d’analisi di questo volume. La lunga incubazione che precede l’allestimento al teatro d’Arte di Mosca, vede l’artista inglese impegnato nella realizzazione di decine e decine di bozzetti, una sorta di storybording che copre l’intero arco della storia, di questo lavoro gran parte resterà confinata nel territorio della visione e dell’ideazione, nel complesso rapporto con Stanilslawsky che porterà ad un allestimento solo parziale delle ‘visioni’ craighiane. Naturalmente sappiamo bene, che, sempre, tra ideazione e allestimento c’è il lavoro di scelta, di scarto, di soluzione adeguata, ma, in questo caso assistiamo , quasi, a due piani sovrapposti, con importanti linee di incidenza tra loro, come se coesistessero due spettacoli: uno realizzato, l’altro confinato nella visione. Felicissima, in questa chiave, l’annotazione proposta da Marotti nella sua Introduzione a Il mio teatro:
Il mondo di Craig è un mondo scomparso. E in esso Craig si era ritagliato un mondo a parte, dai confini rigorosamente tracciati e presidiati dall’Inefficacia e dall’Afasia. Inefficacia di un artista radicale, che progetta in solitudine e vuole realizzare ogni cosa in modo perfetto, talmente teso all’assoluto da preferire l’inazione ad ogni sia pur minimo cedimento alle esigenze della “pratica”, da temere in forma quasi maniacale che altri si appropri (e tradisca) ciò che egli ha faticosamente elaborato. “The enemies” erano gli altri, per Craig, coloro che volevano spingerlo al compromesso, coloro che non volevano sapere, che andavano respinti, ai quali si doveva parlare un linguaggio criptico, il linguaggio esoterico di chi si pone come oggetto di persecuzione. Afasia, anche, di colui che non nutre sufficiente fede nella parola e che, impossibilitato a comunicare attraverso segni teatrali assoluti, si serve di emblemi letterari: le forme precostituite del dialogo filosofico, della visione profetica, dell’excursus storico e filologico (dotte esercitazioni su improbabili fenomeni di anni o regioni lontane), della pagina ironica, dell’enfasi satirica. Chi non tenesse presente la fondamentale artificialità del linguaggio craighiano quale si manifesta negli scritti che qui pubblichiamo, difficilmente potrebbe ritrovare in essi la vivacità e la disponibilità di un’idea di teatro per molti versi ancor oggi feconda. Quando parla della sua poetica, Craig allontana il lettore, cerca di porlo nella scomoda posizione di chi legge un testo sacro, la buona novella di un teatro venturo.
“La buona novella di un teatro venturo”; Ecco il punto. Lo spostamento in avanti della visione, oltre l’affidabile certezza della realizzazione scenica, così radicata in Craig e puntualizzata nella pagina di Marotti, ci riporta alla definizione di Derrida .della scrittura come spazializzazione, tracciato di un margine non sempre definibile, quasi un percorso profetico di segni, quelli che Marotti chiama in Craig “emblemi letterari,: le forme precostituite del dialogo filosofico, della visione profetica, dell’excursus storico e filologico”. In un altro lavoro ho definito questo territorio come “teatro assente”, ma lì si trattava di letterati che esercitavano il potere visionario della scrittura, qui, di contro, mi occupo di artefici di teatro, di uomini di scena la cui acuta sensibilità poetica e percettiva li porta sulla soglia del velario che qui amo chiamare “il sipario oscuro”; come a dire che la folla (meglio dire la follia) del percepibile è governata dall’artista attraverso un gioco di rifrazioni, di rappresentazioni simboliche tutte compresse nel cerchio ritornante del conato creativo, prossimo all’oscurità onirica. .
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Capitolo I:
La fabbrica delle visioni.
L’artificio ‘speculare’ che crea il fantasma: da Las meninas passando per il teatro catottrico barocco. Ossia la trasfigurazione dello sguardo attraverso la moltiplicazione di uno spazio non visibile ma richiamato. Oltre la fuga prospettica, l’artificio del dettaglio nascosto (l’ambiguità delle quinte e del sipario).
Amor allo specchio di Andreini (Ronconi)
Le due commedie in commedia (Ronconi)
I Portraits e Odissey di Bob Wilson…….-
Capitolo II:
Raccontare l’invisibile:
Dal teatro aedico al teatro di narrazione…
Metriche della parola ekfrastica (zumthor)
Gli aedi (Parry e lord); i minstrels; i giullari; dai cantari popolari in ottava all’Orlando. Gli esperimenti sul furioso di Marco Baliani (un work in progress)
CapitoloIII:
Materiali. L’officina di Cotrone.…
Spettacoli rimasti sulla soglia del “fare” , potenti nel concepimento visionario, tanto potenti da non resistere all’ ‘imbuto’ della via verso il visibile, della rappresentazione, eppure scorie di un archivio teatrale da ripercorrere che conserva uno sguardo che penetra l’oscuro, l’invisibile.
I vangeli di Vasilicò;
workshop
Laboratori
Dissodare il campo degli appunti archiviati sul terreno delle ipotesi di lavoro di gruppi che si sono fermati alla soglia della rappresentazione….
1Derrida
2Derrida Artaud
3Van Gogh, l’impressionismo, ecc.
4DeMarinis
5Zsondi
6Teatri/libro
7Avanguardie storiche
8Metafora sui buchi neri e bibliografia di riferimento
Oggi per “archivi di memoria” Pubblico un mio testo che si muove intorno alla rappresentazione di una fiaba di Giovan Battista Basile Autore de Lo cunto de Li Cunti. Il testo, presentato in scena , in prima nazionale al festival dedicato al Basile nella sua città natale (Giugliano di Napoli) risale agli anni ’90 ed in qualche misura riprende i temi e le atmosfere già attraversate ne “Un sogno bruscamente interrotto“… Qui il ruolo che fu di Ersilia è affidato a Zosa, una mendicante laida che forse porta in dote un’inattesa bellezza…
ma vi lascio alla lettura
TUTTO INGANNA
Na notte…0′ cunto ‘e ll’uorche
di Ettore Massarese
Intorno a una fiaba del Pentamerone di G.B.Basile
Scenario notturno. Vicoli o piazzetta, munnezza, scarabattole, colori. Vento con voci; pianti e risa o forse silenzio. Tra luci e ombre furtive immagini urbane(aggressioni, inseguimenti, “vendite” ed altro di una ennesima notte di malore noia perversione o gioia) qualche canto “antico” che è spezzato da suoni del presente;tagli di luce che fendono la notte quasi a scoprire apparizioni “metafisiche” battute in breccia da lampeggiamenti dichiaratamente “urbani”.
Come proveniente da un punto indistinguibile, una figura prende corpo(sembra provenire da molto lontano come se avesse attraversato strade e strade). Questa è Zosa, donna dal tempo indefinibile, ha segnali di bellezza, ma ha anche mill’anni.
Zosa ora è sola nel silenzio. Scava qualcosa nei cumuli di rifiuti.
ZOSA:Non ire scorza scorza, ma trase drinto ca chi non pesca ‘n funno è nu bello catamarro a sto munno!… Si lo negozio è de perfummo, fete! Si hai lo vacile d’oro nce spute lo sango e, si buone mesure, e meglio squatre, chillo che stimme duono de fortuna è pena de lo cielo. ( Continua a cercare…osserva qualche oggetto…addirittura assaggia qualcosa che poi sputa e butta via…) Tutto nganna la vista, tutto ceca la mente, tutto è …apparenzia…(buttando via cose oggetti carte…) (una lunga pausa che è come l’emissione di un respiro che trova strane eco nella notte)Non ire scorza scorza, ma trase drinto ca chi non pesca ‘n funno è nu bello catamarro a sto munno!… Li designe e li chimere so’ le prete che saglie Sisifo a la montagna, che po’ , tuffete! A bascio! E… all’ultemo dell’ultemo ste grannezze so’ tutte ombre e monnezze e no poco de terra drinto a nu fuosse stritto tanto copre no re quanto no guitto!( ride, ma il riso a volte si fa come un rantolo, poi di nuovo sgorga cristallino…poi tra i rifiuti trova uno specchio, un vecchio specchio a manico… vi si riflette… in simmetria appare in un punto lontano una figura, una sorta di “dama bianca” che ripete, come sospesi nel tempo, i movimenti di Zosa, questa rompe il movimento e ride allo stesso modo di prima) Dicette buono chill’ommo de Giugliano: ” Non è tutto oro, no, chello che luce”.
Mentre Zosa si rimira un po’ goffa, ride, piange e fa smorfie alla sua immagine, da alcune aperture (botole? Finestrelle?) fanno capolino alcune figure. Sono come “spiritelli urbani” monelli (o munacielli), osservano la “vecchia” Zosa che si rimira e si inviano segnali di intesa…
PASCALE(ha una sorta di epilessia che gli coinvolge la parte destra del corpo): Zosa! Zosa!….Pecchè nun duorme e t’arrepuose? Mo’ vene ll’ora toia…oi bella Zosa!
ZOSA: Sciu! ‘A faccia vosta! Spirite imvidiuse…
MENECA:(si trascina le gambe inerti camminando sui pugni): Zosa a quanne ‘a vinne mo’ chella bella cosa?
NICOLA: (entra strascicando un canto è zoppo ad una gamba):Pizzeche e vase nun fanne pertuse!
IANNIELLO(è cieco e cammina appoggiandosi alle spalle di Nicola): Zosa…Zosa… a quanne a vinne mo’ chella bella cosa?(la sua battuta è un po’ ritardata come se la sua esclusione fosse avvertita da una voglia ossessiva di partecipare al “gioco”)
ZOSA: (Zosa ha come un moto di orgoglio, si scuote , si muove con imprevista leggiadria, quasi dovesse mostrare ancora e “vendere” le sue bellezze. Poi si rintana di nuovo con amarezza.)
Tutta l’allegrezza me retorna a trivole e a turmiento,
me ‘nteseca lo friddo, me resorve lo caudo,
me roseca la famme, la fatica me scanna,
luongo l’affanno e le docezze corte
la vita ‘ncerta e secura la morte.
Mentre Zosa recita dolente questi versi la figura “bianca” riappare accompagnandola con un antico dolce canto…
MONELLI :Uh povera Zosa…Chiagne e nun trova ricietto…chiagne e nun s’arreposa…(i monelli sono come spiriti, ma anche facce stravolte, ceffi giovanili che appaiono nella notte, illuminati in un raggio in un bagliore… si avvicinano a Zosa che, intanto, è tornata a rimirarsi vaga nello specchio) Zosa, Zosa, ca tu te guarde… nun è na bella cosa…Specchio, specchio delle mie brame… chi è sta ‘nfeta cessi ca te tene pe’ mmane?…Che vaie truvanne pe’ sti llaste oi Zosa?…
ZOSA: Jatevenne, paracule, ca’ io so’ fatata…nun me ncuietate…
MONELLI: Nun ‘a ncuietate…nun a ncuietate…chesta è fatata…C’ha ditto?…Ha ditto che è fatata…Uh! (cominciano a girarle attorno) :
Aglie e fragaglie
fattura ca nun quaglie
corna e bicorna
capa d’alice e capa d’aglie.
Durante la filastrocca stringono Zosa sempre di più come in un cerchio, Zosa tiene alto lo specchio come a preservarlo, ma i monelli cercano di portarglielo via. Bagliori e ombre… risate sguaiate…ad un tratto le portano via lo specchio…Zosa è come sperduta…
ZOSA:No…no! Lassatammillo!…
MONELLI (passandosi lo specchio): avite ntiso? datele o’ specchio… si no nce fa’ a fattura…e nun t’appaura e’ te guarda’ dint’o vvitro oi fattucchiara?
ZOSA: Dateme ‘o specchio cacamaccarune!( su questa invettiva lo specchio è finito nelle mani di Ianniello che, con l’imperizia motoria propria dei ciechi, lo lascia cadere…)là nce sta ‘a vita mia!(Zosa che ha urlato questa sua disperata “verità”, va verso lo specchio e prende a raccattarne i frammenti, i monelli le si avvicinano, come per aiutarla, ma, nel raccogliere i frammenti di vetro, prendono a graffiarla con inusitata violenza)
MENECA:Comme si’ bella drinto a sti llaste, oi Zosa!
IANNIELLO:Uh! Comme lucceca stu vvitro!
NICOLA: Voglio pazzia’ pure io cu sti lucelle!
PASCALE: Cca’ nce sta’ ‘a vita toia? E teccatella!
Mentre Zosa viene graffiata con i frammenti di vetro, con un effetto di cromatura scura, sgorga del sangue. I balordi ne restano sorpresi…
ZOSA: Ah! I’ me ne moro…
I monelli ridono sguaiati, ma Zosa solleva le braccia come una piccola povera crista e dai polsi le sgorga il sangue…
NICOLA: Uh! ‘o sanghe…
PASCALE( Allunga una mano, raccoglie qualche goccia nel palmo ed assaggia il liquido) : Mmh! Comme è doce…( lentamente il tremito epilettico di Pascale va a scomparire)
Meneca, Nicola e Ianniello si attaccano ai polsi di Zosa…
TUTTI: E’ doce, è o’ vero, è doce…(Ciascuno di loro perde, lentamente l’handicap che lo contraddistingue.
Durante questa sequenza Zosa attacca, dolcissima, a cantare l’antica villanella “Vurria stu munno fatto a voglia mia”. Terminata la villanella un flauto lontano accompagna l’apparire, dal fondo, della dama bianca
ZOSA( che è tornata a rimirarsi nello specchio appenna frantumato) Tutto inganna…tutto è apparenzia… è nu juoco ‘a morta mia… è nu juoco ‘a vita vosta…Vvedite…vedite chi vene, è na’ cumpagna da’ mia… nun v’appaurate… ‘a tenevo annascusa drinto ‘a stu specchio( Solleva lo specchio e lo direziona verso la figura che sta lentamente avanzando) Viene, trasimmo cca’ drinto( indica lo specchio).
DAMA: Zosa, Zosa, nun è ‘o mumento ‘e nce ne jre drinto a n’ata parte, aitamme sti piccerille, aitamme sti’ pazze….
ZOSA: E c’aggia cchiù da fare? L’aggiu date ‘o sanghe mio…
DAMA: Cuntammele na’ storia, o vvi’, lla’, nterra, nce sta nu libro ( si evidenzia come in un bagliore un gran libro antico )
MENECA:( Raccoglie il libro e lo guarda): Nun saccio leggere( Passa il libro a Pascale)
PASCALE( guarda il libro): E nemmanco io
IANNIELLO( prendendo il libro e passandosi la mano sui nuovi occhi) E che so’ sti signe?( passa il libro a Nicola)
NICOLA( prende il libro): E cca nun ce stanno lli ffigure…Zosa, aiutace tu( pone il libro dinanzi a Zosa)
PASCALE: Si, liegge, liegge che nce sta scritto…
MENECA E IANNIELLO:Liegge, liegge…
DAMA: Cunta lo cunto oi Zosa…
ZOSA: Io me ne moro…
DAMA: Cunta, ca si tu cunte nun muore.
..Cunta lu cunto de l’uorche,
de li guagliune
e de li mamme ngrate,
de li vvestie gentile
e de li furbe
ca se pigliano e’ mazzate…
I MONELLI: Cunta Zosa, cunta…
Zosa gira, con gran gesto, la prima pagina del libro. Su questo entra una musica tarantata, la Dama si scopre mostrandosi come una sorta di “A vecchia o Carnevale”, ed attacca una furiosa danza durante la quale, come in un rituale consegna maschere e abiti ” affabulanti” ai monelli. Giocando con alcuni teli, che apparivano dapprima come stracci, li stende come a scenario della fiaba. Man mano che i teli vengono stesi, i monelli indossano i costumi e le maschere, come a provare la natura magica dei teli ed entrando, ritualmente, nel gioco. Compiuto il rito, Zosa attacca a raccontare sulle note di una “dolce musica da viaggio”. Il racconto va avanti fina a “che porta lo taccaro”. Durante questa prima fase del racconto i monelli-maschera fanno capolino, a turno, dai teli fino a scomparire in uno con la musica. Prosegue il racconta di Zosa…
ZOSA: …E non c’era juorno ca nanna Masella nun dicesse a lu figlio Antuono…
HA INIZIO LA FIABA. (‘O cunto e’ ll’uorco- giornata I de Lo cunto de li cunti)
Lungo il racconto che è gestito come un gioco stilizzato in cui la parola di Basile fluisce libera di esprimere tutta la sua corporeità la sua capacità specificamente “affabulante”, di tanto in tanto la Dama ne scandisce alcuni passaggi(ad esempio le ricchezze dell’asino e del tovagliolo saranno da lei fornite).
***
Non appena il cunto è terminato…rientra la musica tarantata, ma la danza della Dama è molto più stilizzata, lungo la danza i teli ritornano “stracci” e le maschere si ricompongono nei Monelli che, progressivamente riprendono i loro handicaps fisici. Qui, sulle note di un madrigale di Gesualdo da Venosa, affabulazione tragicamente “alta” del passaggio che Zosa sta per compiere, la Dama si avvicina a Zosa e l’avvolge nel suo ampio manto. Qui Zosa esala l’ultimo respiro. La Dama arretra con il suo fardello, ma, come aprisse un sipario su di un nuovo mondo, di spalle, accattivante, mostra lo scenario della “nuova” bellezza” di Zosa.
DAMA E ZOSA: A pazze e a piccerille Dio l’aiuta….(arretrano…la loro immagine resta come sfumata, solo negli specchi).
IANNIELLO (cieco, di nuovo, brancolante):Pascà, Meneca, Nicola…o’ libro…o’ libro..Sta ancora llà nterra?
MENECA(Trascinandosi di nuovo, va verso il libro): Si, Ianniè, sta ccà…
IANNIELLO: Nicò puortame nnante o’ libro…(Nicola che ha riscoperto, dolorosamente, la sua sciancatura, fa inginocchiare Ianniello davanti al libro, gli altri si accorpano intorno)Pascà, Meneca, Nicola…(Ianniello impone le mani sul libro, poi brancola verso l’alto): Io leggo…
NICOLA( SCURO): Fa friddo, arreterammece….
PASCALE: Si, fa friddo e nuie cca mmieze nun tenimme che fare, cu chi pazziamme? Eh! Zosa, cu chi pazziamme?
IANNIELLO: Zitte! Sto liggenne…
MENECA : E cunta Ianniè, cuntace lo cunto
PASCALE E NICOLA( Scuri e tesi) Si cunta… fa’ mpressa… cunta!
IANNIELLO ( fa mosse di leggere , ma le sue labbra non producono parole)
Come delusi, soli terribilmente soli, Pascale, Nicola e Meneca si rintanano verso gli anfratti da cui sono usciti…mentre riparte, solenne il madrigale di Tasso e Gesualdo, per un attimo si fa più evidente l’immagine di Zosa e della dama…
IANNIELLO: Io nun leggo, io nun arrive cchiù a leggere… io nun ce veco…Zosa!Zosa!Zosa! I’ Nun ce veco!
FINE